Il tempo dei poeti, di Gianmario Lucini
Il tempo è uno dei temi più dibattuti dalla filosofia, dalla scienza, dalla religione; non molto in verità dalla poesia. Farne dunque il solo argomento di una corposa raccolta d 34 poesie che formano un unico poema diviso in 34 canti (alcuni sono dei poemetti brevi essi stessi), è una scelta almeno inusuale, in poesia. Peraltro, la poesia dal poema del Gilgamesh in poi, sembra non aver elaborato molte considerazioni, che oggi ormai suonano stereotipate, sulla natura. Il tempo dei poeti è visto non tanto nel senso di "kronos" come fa la scienza (che ha diviso il tempo in frammenti), ma piuttosto nelle conseguenze dirette per l'uomo e quindi la morte, l'invecchiamento, il passaggio da una giovinezza di godimenti a una senilità di dolore fisico e decadimento (si pensi alla poesia classica, da Orazio ai poeti del '400 e non pochi imitatori anche contemporanei...). Forse il Foscolo si distingue da questo orizzonte nel poemetto dei Sepolcri ), opponendo al tempo la memoria, rifiutando cioé l'enigma del che ha il vago e paradossale sapore della domanda cartesiana - Cartesio che trasalendo si chiede se tutto non sia che illusione, se un demone maligno non si diverta a far apparire quel che in effetti non esiste.
Il poema di Montalto non vuole però, così mi pare, riferirsi alla letteratura e nemmeno alla filosofia, anche se sono innumerevoli i riferimenti alla tradizione letteraria, alla filosofia del '900 e al rifiuto della "aprioristica" intuizione kantiana, alla religione, alla scienza. La sua posizione è dunque quella di uno che tenta di guardare nel ventre dell'abisso, di scrutare e risolvere l'enigma e il paradosso pur senza la pretesa di capire, di farsene una ragione. A suo modo è una posizione eroica. Il poemetto infatti si caratterizza per un totale sbigottimento in questa contemplazione, anche là dove l'Io del poeta si ribella e sembra voler chiedere ragione a Dio stesso ("se esiste") di questa fondamentale incongruenza che da un punto di vista puramente esistenzialistico vanifica ogni altra ragione e il fondamento stesso di ogni attività di ragione.
Ed ovviamente l'evento che è indicato come causa di questo interrogarsi e di questo orrore misto a un senso di fascino e di spavento è la morte, la certezza che la propria individualità finisce. Ne consegue il rifiuto a sperare (come fa ad esempio il Foscolo) nell'idea di un proprio permanere e quindi di una individuale vittoria sul tempo, affidandosi a qualcosa di collettivo, come potrebbe essere la memoria, la poesia stessa, quello che uno lascia dietro di sé e in qualche modo può caratterizzare il tempo che lo segue. La visione è quindi radicalmente disincantata, senza soluzione e senza sbocchi e il poeta sembra un uccello che si dibatte nel vischio, sempre più invischiato. Le immagini usate per descrivere questi sentimenti sembrano venire direttamente da certi affreschi di origine medioevale (non a caso il Bosch in copertina), che ancora si possono vedere ai nostri giorni nei cimiteri dell'epoca, oppure da certe rappresentazioni della "morte secca" del settecento, o anche da certe suggestioni del romanzo gotico. Anche là dove viene usata l'immagine beffarda o la definizione ironica, non traspare nessun cedimento alla serenità anche se, a ben vedere, pur mantenendosi nel tono "alto" e nella perenne serietà/severità espositiva, il linguaggio non cede alla retorica, non tenta le vie oratorie - che sarebbero un tranello nel quale un poeta di primo pelo cadrebbe sicuramente. Colpisce invece, nel verso e nella fonoprosodia, una accorta musicalità che si adatta di volta in volta alle esigenze espressive; nel brano che abbiamo scelto ad esempio, ossia il bellissimo Coro dei fluttuanti, la prosodia sembra riecheggiare il coro della tragedia greca e insieme la ballata di gusto medioevale - si pensi a Villon, ad esempio -, e anche se il verso si fonda sul ritmo dell'endecasillabo, non troviamo invero costrizioni normative di carattere canonico.
Montalto non è un poeta di primo pelo: ormai dal suo libro di esordio (ossia Scribacchino, edito nel 2000 da Joker) di tempo (!) ne è passato abbastanza, soprattutto se consideriamo che la creatività del nostro (che è molto più attivo sul versante della critica che della poesia o della narrativa) è di tipo vulcanico, immediato, suscettibile a innumerevoli stimoli, ai quali ovviamente egli risponde con prontezza. Considerata per questo aspetto, l'opera ci sembra, per inciso, anche molto autobiografica e non soltanto una speculazione seppur poetica, significativa cioè di un tratto psicologico del poeta stesso, parte della sua esperienza di vita. Montalto infatti sembra ossessionarsi per il tempo che non gli è dato, che non gli è sufficiente per fare quello che vuole fare. Egli è un caso evidente di artista reattivo, ma non per questo irriflessivo. Costruire un poema del genere, così denso di riferimenti e di impianto così solido non è infatti operazione che un poeta mediocre - e neppure un poeta valido - possa fare dall'oggi al domani: occorre infatti meditazione, accurata scelta, capacità di dare fiato e continuità agli spunti tematici per legare bene insieme i testi e pilotarli al risultato che si vuole ottenere: occorre, paradossalmente, il tempo. A me pare però che egli riesca molto bene in questo compito e, credo, questa esplicita intenzione, consegnandoci un'opera che convince e trascina il lettore.
C'è un altro poeta che ha scritto un'opera vagamente simile a questa, anche se per altri approcci, ed è il Qohèlet, il principe biblico che scrive l'opera canonizzata come "Ecclesiaste". Qohèlet insiste sulla vacuità del tempo, vuol dimostrare che nulla ha senso, neppure la sapienza, di fronte alla finitudine che consegna l'uomo alla vacuità, al non-senso di esistere; ed è per questo che da alcuni il poema di Qohèlet fu definito "il poema ateo della Bibbia". Anche Montalto ci parla di vacuità, ma i suoi versi non sembrano mescolarsi a questo vento del deserto che "gira e rigira e non si ferma mai": Moltalto invece, forse paradossalmente e nonostante gli elementi del fantastico e dell'onirico sovrabbondino, con la sua stringente e disincantata domanda vuole interrompere il tempo, fermarlo, ricondurre a un solo attimo tutti gli attimi della storia, chiedere al tempo ragione per il suo nascere già morto. Se l'orizzonte del Qohèlet è quella del mònito (tutto finisce, solo il rapporto con Dio è insubordinato alle regole del tempo) e quindi, di conseguenza, la sua conclusione è ascetica, l'orizzonte di Montalto è invece quello eroico-esistenziale, perché nel suo libro non trova una risposta: troviamo perplessità, smarrimento, persino terrore, a volte cinismo, o ancora ribellione e un continuo insistente interrogare, ma non troviamo risposta alcuna, nessuna consolazione, nessuna via di uscita, il disincanto più totale dell'essere che punta lo sguardo dritto negli occhi del nulla. E' insomma una specie di moderna e stringente anamnesis, una ricerca, una hystoria, una accorata petizione e insieme denuncia, ma poi si ferma lì senza l'intenzione di dispiegare orizzonti nuovi o teorie sul tempo e neppure sentimenti di autocommiserazione e tanto meno di consolazione. Potrà anche non piacere, ma non è scritto da nessuna parte che la poesia debba essere il luogo della consolazione delle nostre miserie, e neppure lo strumento per gabbare il tempo e la morte...