Sangu

01-04-2011

Per stomaci forti, di Valentino G. Colapinto
 
Mai come negli ultimi anni si sono affermati così tanti scrittori pugliesi, tanto che si è parlato da più parti di un rinascimento letterario in atto nel Tacco d’Italia. Questo fenomeno, però, aveva finora interessato solo marginalmente la letteratura di genere, e in particolare il noir. Tralasciati, infatti, due magistrati scalatori delle classifiche come Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo, non è facile individuare altri pugliesi specialisti di un genere così di moda.
Proprio per smentire questo dato e affermare che anche la Puglia – al di là dell’immagine da cartolina fatta di cime di rapa e taranta – può essere una regione per noir (e basti pensare ai tanti casi mediatici di cui è stata protagonista ultimamente, come il delitto della povera Sarah Scazzi), la Manni Editori ha pensato bene di realizzare l’antologia “Sangu”, chiedendo a dieci autori pugliesi – prevalentemente salentini, come la stessa casa editrice del resto – di raccontare il lato oscuro di questa regione.
Molti i nomi famosi a livello nazionale e apprezzati sia dal pubblico che dalla critica tra Cosimo Argentina (Taranto, 1963), Rossano Astremo (Grottaglie, 1979), Piero Calò (Manduria, 1969), Carlo D’Amicis (Taranto, 1964), Daniele De Michele in arte “donpasta”, Omar Di Monopoli (Bologna, 1971), Elisabetta Liguori (Lecce, 1968), Piero Manni (Soleto, 1944), Livio Romano (Nardò, 1968) ed Enzo Verrengia (Alatri, 1955).
Di tutti questi due soltanto, Di Monopoli ed Enzo Verrengia, avevano già una qualche familiarità col genere, mentre per gli altri si è trattata di una prima volta assoluta e questo emerge chiaramente dalla notevole eterogeneità del volume, che contiene racconti molto diversi tra loro: al pulp tarantiniano si alterna l’horror soprannaturale, al noir vero e proprio lo splatter o il divertissement letterario.
I temi affrontati vanno dalla piaga ancora viva del caporalato a delitti consumati in una banale quotidianità, dalla mafia alla superstizione popolare, ma tenendo sempre al centro una depravazione fisica e morale, che sembra contagiare tutto e tutti.
Si tratta per lo più di storie molto crude, per stomaci forti. Basti pensare che su dieci racconti, tre contengono episodi di necrofilia. Storie in ogni caso non banali, né banalmente raccontate. Gli autori coinvolti, infatti, fanno largo uso della contaminazione col dialetto (o con l’albanese nel caso del racconto di D’Amicis) e di sperimentazioni letterarie più o meno ardite, ma senza cadere quasi mai nello sterile gioco intellettuale. Si tratta pur sempre di narrazioni impastate di terra e di sangue.
Personalmente, ho apprezzato in particolar modo “Maledetta maciàra” di Omar Di Monopoli e “Straordinario” di Enzo Verrengia, che come detto erano i soli due a essere già avvezzi al genere nero e ne danno dimostrazione sfruttando al meglio i meccanismi del noir, con tanto di colpo di scena finale spietato e fulminante.
“Maledetta maciàra” racconta della scomparsa di un bambino, Tommasino, in un indefinito paese salentino, dietro cui non si può non vedere l’eco dei fatti di Avetrana, avvenuti a pochi chilometri dalla Manduria dove risiede da anni Di Monopoli. Del delitto di Tommasino viene incolpata una maciàra, sorta di fattucchiera in salsa pugliese, facile capro espiatorio per il popolino, ma la realtà come al solito non è così scontata. In poche pagine Di Monopoli riesce a tratteggiare una vicenda esemplare, mostrandosi come di consueto maestro nell’invenzione di un dialetto letterario efficacissimo.
“Straordinario” narra la parabola finale della vita di un grigissimo bancario, Alfonso Limosani detto Fonzino, costretto dal suo direttore a farsi saldare di persona il debito contratto dai Fratelli Cioffreda, delinquenti incalliti. Mentre attraversa una suburbia post-apocalittica, in cui non è difficile riconoscere la San Severo amata-odiata dall’autore, Fonzino decide di riscattare la sua mediocre esistenza, salvando una bella prostituta senegalese dal suo sfruttatore. E sarà proprio questo inatteso gesto di bontà a portarlo alla rovina.
Notevole anche l’esercizio di stile di Carlo D’Amicis nel suo “Ammazzare i Morti”, che impastando italiano e albanese è riuscito a raccontare con un ininterrotto flusso di coscienza di oltre venti pagine le vicissitudini picaresche e tragicomiche di uno dei tanti immigrati extracomunitari in cerca di miglior fortuna.
Nel complesso, quindi, un esperimento sicuramente interessante e godibile, di cui sarebbe bello vedere presto un seguito, che coinvolga magari anche altri scrittori pugliesi non necessariamente salentini.