Un meteorite laccato, di Antonio Spagnuolo
Il bianco come meteorite laccato che attraversa con la sua rapidità un tratto di cielo, e per esso un tratto di tempo, che scardina con la sua luminosità le sorti tracciate dal verso, per la precarietà del caso o della quotidianità, per la illusione della “musa ispiratrice” e dell’inconscio.
E’ questo senza dubbio un volume ben riuscito, sia per la eleganza della copertina, sia per i contenuti, che sono serrati, compositi, e ricchi di metafore, sia per la forma che si avvale di un momento creativo felicemente inseguito.
Brani rapidi e fulminanti si alternano a testi quasi discorsivi, dalle unità lunghe o molto lunghe, che sfiorano a tratti la prosa, pur rimanendo nella espressione musicale ritmate e delineate.
Il poeta possiede una sua potenzialità ermeneutica capace di operare in alterità e profondità tali da sostenere il gioco inevitabile tra essere ed esistere.
Qui il rigore determina una prospettiva oscillante verso il classicismo che impone una costruzione perfetta ed equilibrata a difesa della composizione metrica tradizionale e pur contemporanea, ove la forza creativa enuncia lo schermo sostanzialmente libero , ove il momento di transizione è rappresentato da una sorta di racconto lirico-simbolico, dal quale emerge chiara la natura di una poetica personale e impegnata. Il testo si rapporta spesso e con evidenza a precisi momenti della biografia del poeta, con un progressivo distacco dai legami mondani ed una convinzione operante del recupero, capace di assaporare le primizie della speranza e delle vertigini, in una espressione in cui la fragilità esistenziale si aggrappa con energie particolari alla ragione, trasfusa dolcemente tra verso e verso .
Un grido dilania il sospetto : “Ma allora sarei davvero solo, e tutto ciò che vedo/ soltanto una finzione appoggiata a credenziali/ di cose morte che non sanno più morire…” - Interrogativo che, nella sua cruda realtà di sospetto, sospende il pensiero ad un tempo ideale della poesia, sul piano metaforico e sul dilemma che caratterizza il malessere contemporaneo, consapevole della uccisione del sogno.
“Sapendo bene che se il momento è sbagliato,/ è quello mio di essere venuto al mondo./ E aspetto, per guarire, quel domani/ dove faglie autunnali ruotano al sole,/ e quell’istante è dolcezza e calore,/ fin dove arriva la suola che spazzola e calpesta.” La percezione personale di un tormento che corrode senza manifestarsi, che attraversa la pagina nel gorgo della esistenza, sembra diventare quasi una preghiera, perché la necessità stacca l’angoscia sognatrice per immergersi nella invocazione celata.
“Per tornare a galleggiare nel mondo…” la suggestione cerca quel calore che si disperde in una dimensione panica, per la quale la voce cerca di creare “dentro te altre feritoie/ dalle quali è evaporato chi ti amava.”
Stelvio Di Spigno sa affascinare tra i cromatismi, gli effetti luminosi, le immagini che si arricchiscono continuamente di tensione.