Formazione del bianco

Formazione del bianco

copertina
anno
2007
Collana
Categoria
pagine
88
isbn
978-88-8176-970-4
10,45 €
Titolo
Formazione del bianco
Prezzo
11,00 €
ISBN
978-88-8176-970-4
nota
Prefazione di Stefano Dal Bianco

In queste poesie il punto d’arrivo e di partenza è il bianco: un po’ avvertito, in negativo, come già presente, un po’ presentito e auspicato, in positivo, come condizione veniente. Bisogna fare il bianco, bisogna fare piazza pulita del sé anteriore, bisogna che “l’immagine del mondo in noi scompaia” perché una rinascita sia possibile.

 
Stefano Dal Bianco
 

Stelvio Di Spigno è nato nel 1975 a Napoli dove si è addottorato in Letteratura italiana e svolge attività di ricerca presso l’Università Orientale. Vive a Gaeta.

Ha pubblicato Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di F. Buffoni; il volume di versi Mattinale; il saggio Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi. Collabora con “La Provincia” e “La Gazzetta del Sud”.

PREFAZIONE di Stefano Dal Bianco

 

“The classic is the local fully realized: words marked by a place.” Certamente Stelvio Di Spigno non conosce la famosa sentenza di William Carlos Williams, altrimenti l’avremmo trovata citata da qualche parte in questo libro. È vero che le parole del grande americano si attagliano a molti, come è vero che quasi ogni poeta ha un suo luogo sacro. Ma qui, in questo poeta tanto cosciente di sé e tanto votato alla poetica, la determinazione della scena fa davvero tutt’uno con l’adozione di una prospettiva quasi provocatoriamente classicistica. Ma, intanto, che senso vogliamo dare a una parola così abusata, sempre fuori luogo e vagamente stantìa come “classicismo”?
Di questi tempi passa per difensore della tradizione chi fa sonetti terzine e forme chiuse. Nossignori, quelli sono liquidatori. Chi, come l’autore di questo libro, ha fiducia nella tradizione ne accetta il divenire storico, non se ne fa un mascherone di carnevale, e se la tradizione novecentesca è sostanzialmente quella del verso libero, chi la ama non può che sposare quella metrica libera che è il portato storico del secolo appena trascorso.
Ne va del nostro senso del presente, ma non solo: la forma chiusa è una difesa. La maggior parte dei sonettari contemporanei usa il metro come uno schermo. Attraverso il filtro della gabbia metrica si trova il coraggio di enunciare delle proprie verità, anche brucianti, che non si avrebbe la forza di enunciare altrimenti. Ma l’effetto è che queste verità risultano in tal modo artefatte, non più vere nel momento in cui si adotta una maschera.
Ma c’è chi si rifiuta di anteporre all’esistenza la forma quale principio assoluto. Il classicista Di Spigno non si vieta nessuna libertà e nemmeno se la impone, e rischia di più perché così facendo si sottrae a ogni riparo. Se il momento fondamentale di una scrittura responsabile è quello di giungere intatta al lettore, di riuscire a instaurare una forma di condivisione (e si veda la poesia proemiale), una delle sue preoccupazioni sarà di salvaguardare la propria condizione di inermità, a tutti i livelli.
Ed è qui che diventa importante una scelta di campo. Il luogo geografico di Formazione del bianco è facilmente individuabile e dichiarato: Gaeta e certa periferia di Napoli rivisitata come teatro dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista dopo la disgregazione di una famiglia estesa. La dimensione dominante è dunque quella del ricordo: Mnemosyne la fa da padrona per un itinerario che dovrebbe essere di ricostituzione dell’io, e che sempre più assume i tratti di un accertamento di inconsistenza. E localizzare qui significa anzitutto privatizzare, addentrarsi nella storia dell’io attraverso la sua geografia, che sola potrà restituirne un’immagine non falsata, costi quello che costi: “Mi sono specchiato in un’acqua di fogna, / ma l’ho riconosciuta: / mi sono rispecchiato nell’infanzia”.
È un itinerario difficile perché i nemici da combattere – che portano fuori strada o semplicemente bloccano il movimento a ritroso – sono molti, per esempio la “nostalgia che devasta”, oppure il sonno, portatore di sterili “incubi stranianti”. E il percorso si fa accidentato, tanto più doloroso dal momento che l’imperativo è sempre quello di nominare tendenzialmente senza pudori le cose e i fatti della propria vita.
Tutto ciò non può che tradursi in ansia circostanziale, qualche cosa che fa crescere i periodi appesantendoli di determinazioni topografiche, di cavillosi distinguo, di parentetiche affabulanti, mentre il sottofondo della lingua comune oscilla sensibilmente fra momenti di ostentata banalità espressiva e momenti di abbandono inattuale.
Bisogna che il luogo dell’io sia determinato in tutte le sue implicazioni. Ma proprio perché Di Spigno non si può accontentare di poco, a furia di determinazioni circostanziali il luogo perde di coordinate certe, diventa instabile e soggetto all’infinita varietà del mondo fisico e del mondo metafisico, agli stati d’animo, alle correnti del pensiero. In questo libro cercheremo invano la certezza di una definizione singola, non c’è mai la superficialità, a volte disonesta, il più delle volte disonesta, che pretende di dare risposte univoche a situazioni che non lo sono e non possono esserlo per statuto. Qui bisogna stare.
E allora il nemico numero uno, la paura prima di questo poeta diventa l’eccesso di consapevolezza, in assoluto e nel far versi, che si tradurrebbe inevitabilmente in un cedimento a una qualche forma di perfezione stilistica, di governo “padronale” del discorso (si veda almeno la capitale “Metafora del silenzio”).
C’è qualche cosa che stona regolarmente in questi versi, qualche cosa che non torna, e individuare che cosa sia non è facilissimo: ma poi si vede che l’intruso è quasi sempre una sorta di esagerata volontà di aderire e rendere conto delle situazioni e delle occasioni, di metterle in piazza demistificando il momento lirico. È un atteggiamento che ha qualche cosa di scomposto, come se Di Spigno volesse a ogni occasione ricordarci che tutto nasce e muore sporco ed è bene che sia così: dobbiamo tenerci il fastidio.
A dispetto di certi toni concilianti e della evidente fede nella tradizione nazionale, non bisogna dunque aspettarsi un genere di poesia forzatamente pacificato in un ron ron crepuscolare: troppi sono gli elementi che lasciano trasparire una aggressività a tratti autolesiva, spie del fatto che la pacificazione è cercata ma non mai raggiunta, e forse nemmeno tanto auspicata, per il momento. Parole forti come un pugno nello stomaco (“stupro”, “fogna”, “ingravidare”, ecc.) si immettono nel contesto generalmente calibrato e perfino, in apparenza, manieristico; e un simile effetto di violenza abrupta fanno le numerose clausole sentenziose tanto di derivazione montaliana quanto direttamente petrarchesca, non nella sostanza ma nella forma, del tipo: “La mente sceglie la sua immagine vitale / dove sente che il tempo passa meno”, o la frequente rottura del principio di non contraddizione (“e tutto mi coinvolge, anzi più niente”, “così parzialmente amato, totalmente amato”) che è sì soprattutto ricerca di una verità di ordine superiore ai due termini della contraddizione, ma è anche, puramente, al grado zero, brutale accostamento di contrari.
L’atteggiamento generale, del tutto cosciente e tematizzato, sta nella percezione, in ogni cosa, della sua propria “percussione interna”, quell’aspetto di tormento, di sofferenza, di scardinamento dell’essere che è però insieme un battito di vita, una garanzia di esistenza. È esattamente ciò che manca al “classicista impoverito”, al ghost writer che produce queste pagine, sempre alle prese con il senso della propria inesistenza (si veda “Foglio bianco”).
Ed ecco che in Formazione del bianco i tratti di stile che più accusano una inerme compromissione con ciò che possiamo chiamare tradizione del classico sono anche, in uguale misura, gli strumenti attraverso i quali il personaggio, a onta delle sue stesse assunzioni di povertà, tenta di recuperare il governo di sé, o, se si vuole, di guadagnarsi una garanzia di esistenza almeno nella lingua.
Si tratta infatti in sostanza di figure di parallelismo e ripetizione, figure in cui la lingua ritrova se stessa, mentre nella ripercussione di quel battito il soggetto si riposa trovando una labile conferma del suo esserci: si va dall’abbondanza di anafore ed epifore all’uso ravvicinato di metafore piuttosto connotate letterariamente, come quelle preposizionali (“la lampada del desiderio”, “la dogana del domani”, “il molosso del passato”). E a livelli meno solari ma forse più cogenti il nostro classicista impoverito non ha paura di intrecciare, a volte molto fittamente, rime e assonanze facili, soprattutto a contatto e nei finali di strofa e di poesia (e qui è impossibile non pensare allo studioso di Leopardi). Ciò, significativamente, accade più spesso dove più infuria il versoliberismo, come in “Storia in prosa del Vic’s Bar” e in “Esplorazione”. Non si può tacere infine, nel novero dei fenomeni percussivi, una certa predilezione per le ricorsività ritmiche, che si esercita particolarmente in sequenze omogenee di endecasillabi scorrevoli, di passo ternario (3ª6ª10ª), un andamento che però talvolta viene inibito nelle sue consuete e tradizionali potenzialità narrative interessando versi sintatticamente isolati e apodittici: il controcanto fra dinamismo ritmico e sintassi isolante andrà ascritto tra i fatti di brutalità o turbolenza espressiva di cui sopra:

Non la vita di tutti che mi chiama

per l’idea di uno squallido lavoro,

non un corpo di donna o novas coisas.

Su quel rosa mi sono ricentrato.

E nessuno mi deve contraddire.

Ma a che cosa serve tutta questa dialettica storico geografica (e stilistica) del personaggio con se stesso? Quale ne è il punto d’arrivo? Ascoltiamo una dichiarazione dell’autore: “La scelta del colore bianco come tema portante del volume, sin dal titolo, vuole indicare purezza, onestà, invisibilità, chiarezza: a questi princìpi si ispirano anche la semplicità dello stile e le scelte formali di queste poesie. Ma il bianco, come non-colore, suggerisce anche scomparsa, indefinibilità di sé, annebbiamento della memoria, sotterramento.”
Il punto d’arrivo e di partenza è il bianco: un po’ avvertito, in negativo, come già presente, un po’ presentito e auspicato, in positivo, come condizione veniente. Bisogna fare il bianco, bisogna fare piazza pulita del sé anteriore, bisogna che “l’immagine del mondo in noi scompaia” perché una rinascita sia possibile.
E allora si tacciano fin d’ora, per favore, e stiano sereni i promotori delle magnifiche sorti e progressive dello “statuto del soggetto”, che vedo già pronti a puntare l’accademico dito su chi si è reso colpevole di aver detto “io” senza sotterfugi, prendendosi tutte le responsabilità del caso. C’è una generazione di poeti che forse sta imparando a infischiarsene di ciò che è opportuno fare per essere à la page: lasciamola libera e ascoltiamola.
Il luogo che la poesia di Stelvio Di Spigno si vuole ritagliare è un luogo incerto, senza riferimenti: è questo luogo che dobbiamo sforzarci di abitare ogni giorno. È in questo luogo che dobbiamo mantenerci vigili per riconoscere quotidianamente che cosa c’è nel bianco che ci riguarda. Che riguarda noi:

Non ci resta che attraversare questo istante

di morte per uscirne, siderali, come le fasce

gassose dei pianeti, brillanti di una luminosità

neanche nostra, segreti anche a noi stessi.