Stelvio Di Spigno, Formazione del bianco

01-02-2008
01/02/2008 - Semicerchio
Senza cambio di direzione, di Giuseppe Bertoni
 
C’è sempre qualcosa, in mezzo ai versi di Formazione del bianco, che ostacola una decisione, un cambio di direzione, e induce a permanere in uno stato di sospensione, su un limite precario affatto agevole: «Quanto bisogna aver vissuto e durato / per mantenersi lungo il bordo, liberi», bordo che di volta in volta è un «greto», un «masso», un «terrapieno», un «muro», il «molosso del passato», il «confine invalicabile degli scogli», la «dogana», il «muro di cinta», la «muraglia in cemento» il «recinto della prigione». In un cammino fisico, reale, ma anche mentale, da intraprendere per recuperare una memoria che oltrepassi le cose del passato e guardi oltre, al futuro, al domani, non si sa «ancora […] se è più dolce partire o tornare», come se non ci si azzardasse a riassaporare una madeleine per paura di una delusione, perché troppo farinosa, troppo dolce, troppo cotta o lievitata male, vanificando così il recupero (volontario) della memoria. Ma la memoria (involontaria) non si ingabbia dentro recinti o spazi demarcati, non si ferma davanti a un muro di cinta. Parla in prefazione Stefano Dal Bianco, di una «determinazione della scena», e il «luogo geografico del libro» sarebbe «Gaeta e certa periferia di Napoli rivisitata come teatro dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista». A parte le indicazioni precise in alcuni titoli, i luoghi più identificabili appaiono per lo più la «casa», l’«appartamento», il «mondo», il «mare», e simili termini generici, viceversa gli spazi dei testi sono costituiti da monologhi, i luoghi sono fatti di analisi interiori, («se c’è un segnale che indica un luogo / noi non vorremmo essere in alcun luogo»), per cui un oggetto, una cosa, un ricordo costituiscono un pretesto per uno scorrere discorsivo che lascia i posti precisi e identificati del paesaggio dietro di sé come se scorressero e scomparissero dal finestrino di un treno; magari per ricapitare lì nuovamente al congedo della singola composizione. Nel frattempo, la memoria (involontaria) ha disseminato qualche traccia, ha tessuto qualche trama: «Sarà stata la musica, ora acida ora liquida, / qualcosa una sera si alzò in noi nello stomaco / come una nausea e investì tutto il locale», «[…] un infelice posizionamento / della nostra anima con il suo ritardo sul giudizio / su noi stessi, e il frastuono penetrante / si trasformò in silenzio». Il silenzio è in affinità sinestetica con il bianco, colore del titolo, colore dell’alba, di un’alba metaforica di rinascita e rigenerazione («un’alba senza caseggiati» «e senza stanze»: senza ostacoli?), e la ‘formazione del bianco’ richiama sì voglia di purezza («il desiderio è incolore») ma è anche metonimia della fertilità umana maschile («questo sole non ha il potere / di […] / ingravidare le foglie a gennaio»). L’apertura al mondo dovrebbe essere «veloce, come uno scatto o un neon» (luce bianca di un flash o un’insegna?), ma una resistenza – più che elettrica, interiore – si insinua, tramite l’avverbio negativo ‘non’ contenuto nel vocabolo neon, ancora una volta.
  

28/12/2009 - La voce di Romagna
La generazione interrotta, di Matteo Fantuzzi

Ecco in questi giorni mi è capitato come mi capita con una certa costanza di dovere consigliare dei libri a persone bene o male della mia età. Se devo dire una frequenza che ho oramai da anni è di andare su un terreno ai più completamente sconosciuto, e questo se da un certo punto di vista è molto sconfortante dall’altra parte è decisamente affascinante perché ti dà quella carta bianca e in qualche modo anche quella purezza d’analisi che ad altri livelli non esiste. Perché stona a un certo punto il fatto che all’interno della generazione “pesante” dei cosiddetti Settanta non stia questo autore di origine napoletana che vive a Gaeta e che probabilmente se fosse (che ne so) di Sesto San Giovanni o di Agrate Brianza avrebbe l’attenzione che si merita, perché l’Italia nella Poesia Contemporanea è ancora così, soffre delle territorialità e se uno si trova nel luogo sbagliato semplicemente fa più fatica. E invece merita di essere conosciuto il lavoro di Stelvio Di Spigno, un “io” talmente uscito dall’atmosfera e dalla pulsione personale da raccontare senza acredine ma con molto tormento tutta l’insoddisfazione di quella generazione che oggi non emerge e non parlo solo nella Poesia, ma nella vita quotidiana, nel lavoro, nella famiglia. Quella generazione interrotta e che decide a propria volta di interrompersi, la lettura di questo autore è come lanciarsi con l’auto contro un albero, ma non con forza, lentamente piuttosto, con rigore. La vita vissuta nella Poesia di Di Spigno è talmente rassegnata nel proprio destino da non volersi modificare, la stortura bene resa dalla Poesia è proprio questa, la legittimazione della condizione umana e in particolare delle nuove generazioni, e in particolare dei territori marginali, della provincia. Di Spigno inquieta perché parla di cose che conosciamo benissimo, che fanno parte di noi, che noi stessi più volte abbiamo conosciuto, ci immedesima in qualche modo ci avvolge, bisognerà fare molta attenzione a questo poeta classe 1975 perché quando si saranno ricompattati determinati equilibri, probabilmente della sua scrittura sentiremo molto parlare. Intanto vale la pena leggerlo.  

 
01/07/2009 - Polimnia
Dal mondo jazz, di Luca Benassi
 
Stelvio Di Spigno è nato nel 1975, a Napoli, dove lavora svolgendo attività di ricerca presso l’Università Orientale. Nel 2007 l’editore Manni pubblica Formazione del Bianco che raccoglie poesie scritte dal 2003 al 2006. Non si tratta in realtà di un’operazione (auto)antologica, ma di un testo che nella sua completezza presenta un’unità di temi e accenti, un percorso di ricerca dal respiro sinfonico, articolato in 8 sezioni. Scrive Stefano del Bianco nella illuminante prefazione: «In queste poesie il punto di arrivo e di partenza è il bianco: un po’ avvertito, in negativo, come già presente, un po’ presentito e auspicato, in positivo, come condizione veniente. Bisogna fare il bianco, bisogna fare piazza pulita del sé anteriore, bisogna che ‘l’immagine del mondo in noi scompaia’ perché una rinascita sia possibile». Il bianco, dunque, è lo spazio della pagina dove si può ricreare il senso attraverso la scrittura; un luogo che è assenza, piazza pulita (per usare le parole del prefatore), e che presenta l’ambivalenza della purezza della nuova nascita come della mortifera desolazione del vuoto (si vedano in questo senso certe pagine memorabili dal Moby Dick di Melville). Formare il bianco significa dunque passare il meridiano zero, mirare all’abisso della propria desolazione per rinascerne come poeta e uomo, e impregnare la carta di desiderio e vita: «Ho usato inchiostro bianco anche stanotte;/ l’ho fatto per salvare questo foglio/ da un mio destino uguale: carta-fogliame,/ con l’alba che riappare in fondo al viale,/ non resterai vuota onesta e magra/ come me, il classicista impoverito./ Sarai riempita da un desiderio umano:/ non finirai in giro per la terra/ come un cadavere nudo e disarmato». Il poeta si rivolge alla carta, al suo bianco capace di accogliere e spaventare, stordire, ma germogliare e dare frutto; la carta è portatrice del segno come la roccia il graffito dei primi uomini, e il poeta ha il compito di inciderla con la forza della parola. Di Spigno abita il territorio del linguaggio che impregna di nero il foglio, gli affida l’assolutezza dei patimenti e del destino, riversando in esso ciò che di meglio può offrire la vita. In questo risiede la grandezza di questa scrittura, che quasi mai scivola nel fuori controllo, capace di evitare quella tendenza della generazione alla quale il poeta appartiene (quella dei nati negli anni ’70) di voler stupire: inseguire il vero con ostinazione, con una parola onesta, coraggiosa e a suo modo classica (il «classicista impoverito» della poesia innanzi citata), nella nettezza di versi che risplendono come il nero sul bianco: «Non ci resta che attraversare questo istante/ di morte per uscirne, siderali, come le fasce/ gassose dei pianeti, brillanti di una luminosità/ neanche nostra, segreti anche a noi stessi». La ricerca di un nitore classico si sostanzia in una musicalità intrinseca ai versi che spesso si richiama a sua volta direttamente alla musica; ecco dunque riferimenti alle note e ai versi di Kristin Hersh, Kurt Cobain, Lorena Mc Kennit, un intrecciarsi di parola e musica che ricorda l’opera del conterraneo Domenico Cipriano e il suo pescare nel mondo del jazz. Con il poeta dell’Irpinia Di Spigno condivide anche  la dimensione di un radicamento nel senso del proprio territorio, una geografia del cuore, Napoli e Gaeta dove il poeta vive, che non è piccineria urbana da androne condominiale (milanese o romano), ma epigrafica adesione ad un luogo antico, mediterraneo, vibrante, un continuo entrare nelle viscere del tramonto, del mare, del vento, della notte, dove può nascere l’amore e la passione: «Che sensualità quelle serate,/ così soddisfatte di loro stesse/ da sembrare indifferenti. Così doveva passare/ la nostra vita intera, senza altri pensieri./ E oltre le vetrate un’altra sala, sempre rubata al mare,/ per gli incontri più intimi e ravvicinati.// Sarà stata la musica, ora acida ora liquida,/ qualcosa una sera si alzò in noi nello stomaco/ come una nausea e investì tutto il locale./ Uno spiffero gelato che non si può localizzare./ Sarà stato il mare che decise di invadere le fondamenta/ del Vic’s Bar per riprendersi il diritto di ululare. […]». Ecco dunque una poesia che si mette in rapporto diretto con il cuore e i suoi palpiti, delusioni, amori, tradimenti; un’astrazione che è incandescenza naturale nell’indagine di se stessi e del rapporto con il reale. Questi versi si pongono come un rinnovato patto di fiducia con la parola che deve essere chiesta al poeta perché (nuovamente) capace di dire; formano il bianco, lo scavano, costruiscono senso perché lo impregnano con il graffio di una scrittura fatta della stessa sostanza dolorosa e liquida di un’anima viva. In questo libro c’è tutto questo, insieme a un ardore e un coraggio che si offrono con pudore al lettore di oggi e di domani.