Stelvio Di Spigno, Formazione del bianco

07-03-2008
Poesia da fare, di Jacopo Galimberti
 
Con questo verso
Cammino lontanamente affezionato
alla tua immagine che non entra più in me:
i capelli di un nero altisonante
con pochi filamenti di grigio
come una cornice braccata da una crepa
per i tuoi trentasette anni –
 
Ma i tuoi occhi cosa vedono senza vedere
e i miei anni come sono
come sono passati senza passare...
 
Sapessi quanto enorme è stato il darti amore,
e che perturbamento è stato amarti,
farti uscire, entrare, uscire,
poi rientrare e poi di nuovo
allontanare gli occhi dal tuo sguardo a vuoto,
io che in una vicinanza avrei voluto
essere il tuo stesso corpo
essere in te, per te, con te,
qualcosa che il tempo non disperde, non umilia.
 
Non capirò mai la tua essenza
cosa sei veramente non lo saprò mai.
Quello che so è che cammini nei miei passi
eversi nel mio respiro tu continui a respirare
e dentro me c’è una stanza semiaperta
dove continui a vivere e a morire,
a vedere come trascino il poco che mi resta,
a ridere forte di me e di te stessa,
a orchestrare i tuoi sorrisi compassati
secondo il battito alterno della tua pazzia
e poi, quando torni calma,
è lì che torni a sperare.
 
Le prime due strofe: una lunga frase si snoda attraverso i versi, non termina con la prima strofa che infatti apre a un incidentale, la quale a sua volta non si chiude.
Il sistema paratattico articola fin dall'inizio uno dei nuclei chiave della poesia : la distanza. La paratassi è per eccellenza lingua scritta, lingua che non può neppur venir letta ad alta voce perché concettualmente troppo carica. La paratassi genera una lingua che perde i connotati fatici, la sua materialità sonora, è lingua « mentale ».
I versi che descrivono l'aspetto fisico ( 3,4,5) sono però spezzati in modo da creare un unità iconica. Il corpo altrui sembra creare un polo di sintesi. La frase cessa di sdipanarsi interminabile e si sigilla, provvisoriamente. I capelli che vengono paragonati a una cornice ricreano tuttavia la distanza rispetto alla centralità del corpo. Quando la centralità del corpo sembra riapparire, essa riappare attarverso il simbolo stesso della sublimazione rispetto all'essere sessuato del corpo, gli « occhi »
Le due strofe si rivelano a ben vedere una reiterata dichiarazione di allontanamento. Dapprima esplicito, in seguito mediato dalla letterarietà : la « crepa » che bracca, lo stesso celebrare i capelli sono due posture che si vogliono « altisonanti », fuori luogo. La ripetizione di « come sono » mima un parlato impossibile, la calcificazione letteraraia dell'oralità.
La terza strofa è composto da un'unica lunga frase. Vi è un « tu », un rivolgersi a un singolo. Vero topos della lirica, il « tu » è ovviamente convenzionale, la poesia è in realtà indirizzata a un pubblico che legge. La prima persona riproduce una postura teatrale in cui pur mostrandosi nell'atto di rivolgersi in-mediatamente al « tu », in realtà interpone tra sé e il « tu » il pubblico. La reiterazione di « amore » « amarti », spiattellano già al primo verso una trasparenza, quella dei propri sentimenti, che è ormai innegabilmente una nozione in crisi. L'uso di una parola desueta per articolare qualcosa di intimo : « perturbamento », pare portare a livello del linguaggio una delle componenti chiave della strofa e della poesia : la costitutiva impossibilità di avvicinarsi attraverso la lingua corrente a un « tu » e\o all''interiorità di chi scrive. La frase prosegue con un altro « luogo comune » che, esse stesso, partecipa di una svalutazione nella letteratura contemporanea. Il corpo del soggetto e quello del « tu » sono concepiti come due entità separate che però, nello stato « amore », possono ricongiungersi in una fusione che perdura.
Anche in questa terza strofa il momento della prossimità epidermica si assoccia a versi brevi, concitati (16, 17). Qui però l'ansia della presenza di un corpo non viene teatralizzata ma mimata attraverso la spezzatura, la rapida ripetizione. In questi pochi versi il soggetto sembra deporre per un istante la posa sdilinquita e credere che il dettato evochi il corpo vero e proprio, l'impatto con esso. L'aderenza, l'in-mediatezza, vengono tuttavia subito scongiurate con una frase « fuori dal tempo » sulle ingiurie del tempo.
Una tale ostentazione teatrale genera un'ambiguità di fondo. Sembrerebbe che il soggetto che si mette in scena concepisca questa postura patetica come l'unica in cui si possono ancora articolare tratti culturali ostracizzati, se non altro in quella che si vuole alta letteratura. Allo stesso tempo, un momento di fusione tra possibilità semantiche e emotività viene per certi aspetti ricollocato in un passato non meglio determinabile in cui termini come « perturbamento » davano forse uno sbocco espressivo all'interiorità. Il dubbio che queste circostanze edeniche siano davvero esistite è tuttavia « messo tra parentesi » dai versi attinenti la prossimità del corpo. Qui pare di ribadita l'impellenza dell'attuale, la necessità di un ancoramento nel presente.   
Nella quarta strofa vi sono due frasi. La prima corrisponde ai primi due versi, ed è di estrema chiarezza e concisione. La seconda è attraversata da spezzature e piu' in generale necessita almeno una rilettura. La prima frase, seguendo le direzione che si sono viste sin qui, potrebbe essere la frase della prossimità del corpo, dell'oralità. La frase è certamente anche questo, basta pensare alla schiettezza con cui il verso si approssima al parlato, infatti la ridondanza in questo caso non è teatrale, sembra piuttosto una ripetizione tipica dell'oralità. Tuttavia l'impiego di un termine come « essenza », in tempi in cui il concetto di essenza è screditato, produce uno scarto. L'oralità e la sua illusione di trasparenza vengono infatti parzialmente ricontestualizzate in un ambito « alto e decaduto » evocato di striscio attraverso la parola « essenza » . La seconda frase è uno sviluppo del topos dell'interprenatazione delle singolarità in uno stato emotivo intenso. Tuttavia la fusione è respinta poiché anche « dentro di me » sussiste la dimensione dell' « osservazione » e del' « orchestrazione », in altre parole una distanza che può sconfinare nella manipolazione anche in uno stato di reciproca appartenenza. La poesia termina con una piccola, geniale sorpresa. La speranza finale, irrelata, incomprensibile, inaggirabile, non è ascritta al soggetto ma al « tu ». Si tratta tuttavia di una speranza che potrebbe essere interpretata anche come « orchestrata » dall'interno del soggetto in vece del « tu ».
L'ultimo verso riprende con coerenza l'antinomia che ha attraversato tutta la poesia. La teatralità in tutte le sue manifestazioni (linguistiche, semantiche, sintattiche, il titolo, etc.) è un'arma a doppio taglio. Da un lato permette di dire l'indicibile perché sembra fornire gli strumenti per portare nel cuore del testo stesso la distanza di cui il soggetto fa esperienza nell'atto di esprimersi. Così facendo però la teatralità rischia costantemente di sviluppare un'autenticità paradossale. Sembrerebbe che la possibilità della poesia sia attaccata alla compresenza di questo antinomia, il rivolgersi a un « tu », malgrado tutto e nonostante tutto, è tuttavia ancora pensabile.