La passioni di Di Francesco, di Arnaldo Colasanti
Seguo da anni il lavoro di Tommaso Di Francesco. Leggo i suoi racconti, le poesie; spesso gli articoli politici su “il Manifesto”. C’è in lui qualcosa di estremo perché radicalmente introverso. Non è una chiusura ma una verticalità. Nemmeno, tuttavia, uno stile o una soluzione espressionistica (che per agire dovrebbe rivelarsi come una deflagrazione, un linguaggio che sporge fuori e grida). Anzi, è proprio lo stile che in Di Francesco sembra azzerato, una specie di cifra corrosa.
Nel libro di racconti La passione della distrazione lo stile cambia continuamente verso, muta, non si ferma in niente. Ha un durezza lineare e scabra, quasi consumata dalla sua stessa energia. In un certo senso, in questa scrittura vige un linguaggio materico e informale. Se si seguono i registri della scrittura (direi «normali» e consueti, a volte colloquiali altre diaristici o fantastici e cronachistici), non t’accorgi della tensione. Quello è un livello di superficie. La chiave vera è altrove, sta dentro: appunto, nel senso di una vitalità estrema quanto intransitiva.
Lo stile di Di Francesco è invisibile perché la vitalità è una primarietà psicologica, prima che estetica: nasce da un senso immediato (materalistico?) di permanenza. Di fatto, scava dentro se stessa; cerca la sua ragione, il muro di terra che è dentro le parole. La vitalità della lingua scende giù, diventa acuta, flebile e insieme impenetrabile. Uccide la malinconia (una possibilità di stile) e precipita in un volo fino a farsi astratta. Un’astrazione, tuttavia, che è il contrario di qualsiasi illusorietà: la scrittura è astratta perché, per la prima volta, la realtà risulta «troppo reale», presente, estrema.
Un distratto lettore di buoni racconti resterà forse a disagio. Il lettore di poesia, invece, potrebbe goderne. Perché il problema morale de La passione della distrazione è l’«infanzia perpetuata nelle cose», è quel senso di libertà che preme dentro la vita e che, restando deluso, buca, cerca in sé, cova nell’ombra la propria autenticità. Leggete Cantaride (la storia di due gemelli camionisti: di come si possa morire per una gioia intrisa di sangue) o quell’amore senza consolazione di Rozafat, soprattutto il bellissimo Lalla e il nano. È un racconto emblematico, incomprensibile ma forte, stretto da un’ortografia incandescente che taglia le pietre della mente in tante scaglie tragiche. Tommaso Di Francesco quando scrive racconta quella lunga infanzia vissuta fra uomini troppo adulti per comprendere il senso delle cose: per capire la gioia che esiste e che pure dovrà morire per le «troppe», le smisurate ferite dell’esistenza. Confessa: «Era un pezzo d’umanità da costruire, perché nessuno, né gli uomini né le donne, hanno il coraggio di affrontarsi fissi negli occhi. Lalla nasce, all’improvviso coma fata o mazzamurello. Lalla nasceva per me».
Che significa vivere con gli occhi chiusi con gli occhi bassi? Quale realtà stringiamo fra le dita se la realtà è tutta nella verticale di un’emozione che per un eccesso di purezza (una volontà? la necessità morale?) si corrode, diventa crudele per troppo amore, rivela la sua perfetta astrazione, il mistero di un realismo radicale, mai traslato? Ecco: «In quell’attimo esatto avvenne per me la separazione tra la poesia e il racconto personale. Di fronte a quella scena sentii il ferro del chirurgo scindermi di netto la pelle e da un’altra parte se ne andò la possibilità di raccontare».
Chi legge La passione della distrazione deve fare i conti con una matericità che nessuna luce rischiara. L’amore per le cose resta dentro, è un’intimità mutila, è la serenità vorace, costretta comunque all’inedia. Come questo paesaggio realistico e astratto, impazzito e solitario; come questa bestia allucinata che si riflette sulle pupille di uno sguardo che da sempre, in poesie, in racconti, attraverso la lunga militanza del giornalismo politico, accetti di corrodersi, è il segreto, la forza e il dolore folle di Tommaso Di Francesco.
Ecco: «Un serpente dormiva raggomitolato. Pensò allora a tutte le decine e decine di antichità cittadine della provincia, accovacciate ai margini della città, e immaginò che fossero enigmi non risolti rimasti come punti interrogativi, paesaggi come segni di interpunzione, intorno al destino urbano. La faccia di pazzo, il figlio dell’usciere, lo aveva sempre accompagnato.»