Mi chiedevo, ancor prima di iniziare la lettura di questa microantologia, il cui titolo richiama perentoriamente “il luogo”, se davvero oggi la parola poetica possa, almeno in Italia, essere connotata dal luogo d’origine e vita, così da conferire alla scrittura un’identità territoriale definita, un’anima segnata dell’origine, uno stigma del luogo privilegiato d’ascolto e di dettato per il poeta.
E’ proprio qui il senso del superamento in atto, oggi, di ogni identità originaria: oggi l’uomo- il poeta, non ha più radici. E’, o presto sarà, uomo senza terra. Il suo luogo di ieri, il suo villaggio o città, inteso come comunità riconoscibile in cui riconoscersi, si sta dissolvendo. Il campanile scompare, avanza una piazza senza confini. Nasce una nuova forma di città non circoscritta, dilatata per la velocità dei movimenti e della comunicazione mediatica. Il nostro luogo di scrittura è oggi un trans-luogo, un deserto in fertile trasformazione, di nuova creatività, nuova cultura, nuove forme di relazione, nuova misura dell’umano, accettando che molti significati sono superati, molti devono essere ricreati Un luogo che vorremmo fosse quello, etico, della libertà di sguardo, planetaria, che gioisce e soffre per eventi ormai coinvolgenti l’intera ekumene. Avvertiamo già quanto questo processo antropologico in atto stia modificando comportamenti e linguaggi e con essi anche il linguaggio poetico.
Nella scrittura quindi non può aver senso ormai un catalogo basato su caratteristiche geografiche identitarie, perché il luogo non sarà più capace di appropriarsi completamente della parola, ma solo favorire l’occasione del corto circuito spazio-pensiero, il legame tra realtà e poesia che tende a superare l’esistente per fare breccia nel tempo.
E giustamente questo tema dell’identità territoriale, del suo eventuale persistere nonostante tutto o del suo fatale avviarsi verso un’estinzione è affrontato dai due curatori Bertoni e Bugliani in modo problematico, come test di verifica, sebbene mi sia sembrato di cogliere una lieve differenza di opinione tra i due riguardo agli esiti: più affermativa, del persistere ancora di un’identità ligure, sebbene in varia misura mescolata nell’identità totale in Bertoni, più problematica e pessimista per la progressiva perdita del paesaggio totale, ambientale e umano, in Bugliani.
I testi scelti, tranne quelli di Macciò, in cui anzi il paesaggio ligure è descritto quasi nel dettaglio geologico e anche avvalendosi del dialetto, evidenziano un’identità ligure di non definito spessore, presente nella descrizione d’ambiente più che nel rispecchiamento di uno spirito del luogo e in una certa dimensione scarna ed essenziale della parola, come ci si aspetterebbe. Bertoni infatti rileva come in questi autori le suggestioni identitarie si stemperano nelle molteplici altre identità in varia misura presenti, legate al più vasto contesto esistenziale, culturale, sociale, in continua evoluzione.
E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il processo storico in atto, dato dalla globalizzazione e ipercomunicazione, comporta, come si è detto, l’inarrestabile apertura e interscambio col mondo intero e insieme il mutamento del paesaggio, si spererebbe non sempre destinato al degrado. E il processo antropologico che sta attraversando ogni regione italiana ha una velocità forse maggiore che in altri paesi europei ed extraeuropei, investendo ogni aspetto della vita e della cultura. Non darei però una valenza negativa al progressivo estinguersi della tipicità culturale regionalistica già da tempo avviato, perché è fatale che un’identità costruitasi con il sedimentarsi millenario di incontri e attività circoscritte su territori delimitati, sfaldandosi oggi i precedenti equilibri, non possa che oggettivamente diluirsi nel mare culturale dei nuovi apporti. O arricchirsi, il che dipende dai punti di vista e dalle volontà. Vorremmo sperare, più che nella improbabile conservazione museale dell’oggetto identità locale, di sicuro inassimilabile ad un prodotto artigianale da proteggere con marchio DOP, nell’acquisto, sia pur lento e difficile, di una futura più ricca identità, in cui sia salva la superiore dimensione dell’etica e dell’estetica che ne consegue.
E ’su questa soglia tra passato e futuro che poesia e cultura in generale dovranno vigilare, respingendo un’omologazione al ribasso, proprio attuando quella “resistenza” di cui parla Rilke, citata da Bugliani nella sua introduzione.
A riprova di quanto detto, i dieci autori selezionati come test di verifica di identità regionale, test attuato direi quasi con la modalità del metodo scientifico del doppio cieco (con nessuna preventiva opinione dei selezionatori e con autori tenuti all’oscuro del test in atto sulla loro opera) ne appaiono tutti inconsapevoli, se nelle loro dichiarazioni quasi nessuno di essi parla di influenza del luogo sulla propria scrittura (solo Colotto ne fa un cenno; non ne parla Macciò, poeta con evidente più alto tasso di ligusticità; Salvaneschi addirittura , nella frase fuori dichiarazione raccolta da Bertoni, perentoriamente esclude di “sentirsi segnata da un’impronta autoctona” ). Ciò quindi conferma una consapevolezza di scrittura che sembra escludere un sentire connotata geograficamente la propria poesia.
E di questo impegno non facile, della dedizione e di questa che ci appare una più equilibrata modalità di approccio che ci auguriamo possa proseguire- mappatura per regioni- rispetto ad operazioni più generali spesso sbilanciate per latitudine, siamo molto grati ai curatori.
Di sicuro i testi di tutti i dieci autori senza alcuna distinzione saranno per ogni lettore di questo volume un valido stimolo a una lettura più larga della loro scrittura.
Senza poi esprimere alcun giudizio di valore sui testi scelti - “saranno poi i tempi lunghi a setacciare, vagliare e ridefinire. Quel che serve oggi è una mappa e una lente di ingrandimento” acutamente osserva Franco Romanò sulla pagina del sito editoriale – vorrei citarne solo quattro, che mi hanno attraversato con decisa voce: il testo da la “Gioia piccola” di Lucetta Frisa, in cui l’aspetto quotidiano si lega ad una splendente visionarietà; il primo testo da “Frammenti del perpetuo poema” di Angelo Tonelli, versi potenti, di evidente ispirazione Rilkiana; l’accorato “A pugni chiusi” di Mauro Ferrari che coniuga pietas ad un nuovo misurato accento lirico, e razionalità a visioni , con forte incisività di lessico; infine i testi da “Index vacuus” di Nanni Cagnone, in cui l’andatura corta del verso esprime di contro un’estrema densità di spessore, un linguaggio spesso ricercato e insieme lieve.