Il portiere caduto alla difesa

Il portiere caduto alla difesa

sottotitolo
Il calcio e il ciclismo nella letteratura italiana del Novecento
copertina
anno
2005
Argomento
Collana
pagine
136
isbn
88-8176-643-4
9,50 €
Titolo
Il portiere caduto alla difesa
Prezzo
10,00 €
ISBN
88-8176-643-4
nota
Introduzione di Folco Portinari

Scrive Folco Portinari: «Non esiste né può esistere una letteratura sportiva contemporanea per la banalissima ragione che non esiste più lo sport, inteso come gioco gratuito. Oggi lo sport è un mestiere lucroso a tempo pieno, privato d’ogni connotazione di gioco.»

Testi di Cosimo Argentina, Giovanni Arpino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Stefano Benni, Franco Bernini, Alberto Bevilacqua, Gianni Brera, Salvatore Bruno, Franco Buffoni, Achille Campanile, Maurizio Cucchi, Alberto Garlini, Alfonso Gatto, Antonio Ghirelli, Giovanni Giudici, Primo Levi, Mario Luzi, Eugenio Montale, Aldo Nove, Giuliana Olivero, Pier Paolo Pasolini, Folco Portinari, Giovanni Raboni, Umberto Saba, Vittorio Sereni.

Introduzione
 
 
Se fosse un romanzo potrebbe essere un romanzo di Carolina Invernizio, la storia di un divorzio o di una separazione sofferta per impotentia coeundi. Magari la libido c’è, ma tutto finisce negli sguardi. Sì, perché ormai il matrimonio si è ridotto a un’attività puramente (!) scopica, un po’ da guardoni, esaurita negli occhi, in modo passivo: ci si limita a guardare la coniunctio, sterile, senza motivazione alcuna se non da alienati (gli alieni sono lì davanti). Questo libro, insomma, vuol essere l’esemplare dimostrazione di un paradosso (o è il libro stesso un paradosso), l’inconciliabilità di due fenomeni, lo sport e la letteratura. Si dirà: “E Omero? E Pindaro? E Virgilio?”. È vero, ma tra quella nozione di sport, cioè di gioco, liturgicamente religiosa o apotropaica, e quella d’uso comune oggi non c’è alcun rapporto né contiguità. In mezzo, tra i due “semi”, c’è il Golgota, vale a dire la cancellazione di ogni ritualità pagana, di qualunque soprasenso, con assieme tutta la sua simbologia, capovolta e sconvolta (non è un caso che sia un santo importante, sant’Ambrogio, a chiudere le Olimpiadi), un’evoluzione semantica che arriva a dissolvere i due significati. Omero e Pindaro non c’entrano più.
Cosa dice il paradosso? Che non esiste né può esistere una letteratura sportiva contemporanea per la banalissima ragione che non esiste più lo sport, inteso come gioco gratuito. Quello che all’inizio del XX secolo Panzini inserì nel suo Dizionario moderno (le parole che non si trovano negli altri dizionari): «“Sport! Cinque lettere: una vocale e quattro consonanti d’una parola non prettamente italica: ma invalsa ormai nell’uso cotidiano e accettata anche dai difensori del vocabolario. Un mondo in questa parola, con tutte le passioni e tutte le virtù della vita”. Nemmeno Dio è stato definito così […]. I giornali speciali dello sport sono lettura comune a tutte le classi sociali, giovanili in specie: anche i quaderni di scuola non portano più in copertina ritratti degli eroi, ma biografia e ritratti di eroi dello sport». D’altra parte, se non esiste la “cosa” come può esserci la sublimazione letteraria della “cosa”? O meglio, la “cosa” c’è ma è “altra”, però nessuno sembra volerla prendere in considerazione, questa “altra cosa”, per quello che è diventata, preferendo immaginare che rimanga la stessa di Omero e di Pindaro. Oggi, lo sanno anche i bambini e i loro genitori, oggi lo sport o ciò che va sotto questo lemma, è un mestiere lucroso a tempo pieno, privato d’ogni connotazione di gioco. Se qualcosa di religioso è rimasto, è il biblico vitello d’oro, è il dio denaro, che ne condiziona financo le regole. Questo avviene, ovviamente, in proporzione diretta rispetto alla diffusione d’ogni singola specialità. Il calcio e il ciclismo, almeno da noi, ne sono i maggiori rappresentanti (e rappresentati), ergo i maggiori beneficiari, se non si considerano gli sport motoristici, nei quali le valenze economiche e industriali risultano decisive, per essere d’una medesima matrice. Tale dato di fatto, infine, ha consigliato il curatore dell’antologia a limitare la sua scelta proprio ai popolari calcio e ciclismo, con una palese sproporzione a favore del primo nei confronti del secondo.
È fatale che ciò avvenga come del resto per ogni antologia, il bilancio o la conta di presenze o assenze, specie queste ultime. Ma io ho già detto che questa non è né vuol essere se non una campionatura esemplificativa dei modi in cui si consuma l’impossibile copula sport-letteratura. Prima che lo facciano altri indicherò io alcune assenze, che non corrispondono però a distrazioni. È assente il novantotto per cento delle specialità. Non c’è l’atletica, che è pur sempre la regina delle Olimpiadi, per assoluta scarsità di testi. Non c’è l’aeronautica, che in D’Annunzio e nei futuristi aveva trovato i suoi cantori eccellenti. Non c’è la boxe, che è un bell’incrocio d’alto e basso, la “nobile arte” e la rissa d’angiporto. Non c’e la ginnastica deamicisiana, non c’è il nuoto, non c’è il canottaggio e nemmeno la vela, che ebbe i suoi campioni in Giasone e Odisseo. Non c’è la scherma, che si vuole sorella al pugilato e che di tanti duellanti ha riempito poemi cavallereschi e romanzi borghesi. Non c’è la pallacanestro né la pallavolo. Non c’è il tennis di Bassani e di Gianni Clerici, la pallacorda rivoluzionaria del giugno 1789. Non c’è il rugby né il baseball perché scarsamente italiani. Non c’è lo sci così come non c’è l’alpinismo, che pure ha pagine straordinarie di Rigoni Stern, di Massimo Mila, di Bonatti. Ma c’è il calcio e c’è il ciclismo, per una scelta di metodo, in funzione documentaria, anche perché la maggioranza degli scrittori di quelli si è occupata.
Cento pagine sono poche, anzi pochissime, però sono molte, anzi moltissime, se dedicate, come ho detto all’inizio, a una cosa che non c’è e, se c’è nella sua ultima metamorfosi evolutiva, è sempre considerata nella sua utopica astrazione, mai nella sua storica realtà. Il vertice di tale incongruenza è raggiunto, con ciclica puntualità, da coloro che ogni quattro anni scrivono delle nostre Olimpiadi come se avessero qualcosa da spartire con quelle di Pindaro, mettendole l’una accanto all’altra quasi l’una fosse la prosecuzione dell’altra. Non vorrei sembrare un cieco, mica posso negare l’esistenza di una “cosa”, che in Italia ha almeno quattro quotidiani specializzati e almeno tre pagine al giorno sui quotidiani di informazione. Più della cultura, molto di più. Perché? Dico solo che lo sport, così com’è oggi, è una branca dell’industria e della finanza, del commercio. Non a caso i membri della Confindustria si ritrovano come dirigenti di società sportive, alcune delle quali sono già quotate in borsa. Ecco, un vero racconto o romanzo sportivo dovrebbe svolgersi tra la direzione di un’industria e una banca, con i giocatori in veste di maestranze. Aggiungo che non c’è nulla di scandaloso, c’è soltanto una grande ambiguità. Né potrebbe essere diversamente con questo assetto socio-economico complessivo. C’è confusione in quanto si finge di non vedere che il codice sportivo è un’appendice delle leggi di mercato, con produzione e profitti in capo agli interessi. Il bilancio consuntivo del calcio, per esempio, è paragonabile a quello di uno stato. È un caso che a vincere siano sempre, salvo rarissime eccezioni, le società più ricche? Ci si può davvero far su un romanzo? Ciò non mi scandalizza affatto, come non mi scandalizzano le industrie e le banche, finché non escono dai loro confini legali (le leggi, comunque, non le fanno loro?). Lo dico per chiarezza, per capire di cosa stiamo parlando.
Qui giunto dichiaro che è lecito e opportuno leggere quelle pagine che attengono al fenomeno sportivo valutandone i modi. In primis mi rendo conto della diversità, tanta è l’evidenza, che esiste tra specialità e specialità, non solo di regole ma di senso e di simbologia e perciò di funzione catartica, di mediazione linguistica, di coinvolgimento emotivo, di identificazione e di immedesimazione con l’eroe. È quel che accade assistendo a uno spettacolo, a un film, o leggendo un romanzo. Con una ulteriore differenza, non essendo gli sport tutti semanticamente eguali. Intanto ci sono gli sport di squadra e quelli individuali che, traducendoli in altro linguaggio, diventano sport narrativi e sport metafisici. Quelli di squadra, per lo più con una palla e una porta che ha da essere difesa o violata, nascondono un loro significato metaforizzato abbastanza facile da decrittare, magari intuitivamente: raccontano una storia bellica o sessuale (si parla di “difesa”, di “assalto”, di “strategia”, ma anche di “penetrazione”, in una mistura linguistica che mostra la mescolanza di significati o di adesioni al “fatto”), e come tale è percepito dall’inconscio di ciascuno, in una rappresentazione camuffata di guerra e di erotismo. Si capisce, da qui, parte della loro fortuna. Quel che stupisce è che lo svelamento non sia recepito da chi scrive, tutto sempre attestato sulle valutazioni tecniche o sugli sviluppi descrittivi. Più sofisticati gli sport individuali, che ho definito metafisici per via del parametro sotteso. Infatti nelle corse, nei salti, nei lanci, l’importante non è vincere bensì superare il limite, spostato sempre più in avanti. Fin dove? Fino a raggiungere il parametro, che è Dio, in quelle che sono le sue qualità teologiche, di essere motore immoto, cioè di correre i cento metri in zero secondi, di salire e scomparire nei cieli, di abolire le nozioni di tempo e di spazio. È questo il fascino sottile di atletica e nuoto, che pretendono facoltà logiche e speculative, pena non capire il senso della “cosa”.
È vero che bisogna distinguere altresì prosa da poesia, nonché il tempo storico. Oggi la prosa è prevalentemente rivolta alle impostazioni tecnico-strategiche (il 4-4-3, il 3-4-2-1 ecc.) e meno alla cronaca, pur rimanendo la descrizione il modulo prevalente: si racconta ciò che si vede. Con meno appeal, dato che possiamo ormai tutti assistere alle gare “in diretta” televisiva, in apparenza come fossimo presenti, benché la televisione ci costringa al suo punto di vista, che snatura il senso originale e autonomo di ciò che riprende, quella essendo la sua ragion d’essere. Il suo occhio è diversissimo da quello umano, è per sua natura manipolatore. Nel calcio il protagonista è il giocatore senza palla. In tv è invece la palla la protagonista: è un altro gioco. Idem, sebbene in misura minore, nella pallacanestro. Qualunque cosa si scriva è allora lontana e inferiore al “fatto” che vediamo in tv, ne è una falsa testimonianza e così è recepita (a meno che si sia capaci, e non lo si è, di mutare registro, ambiente, senso). Mentre prima dell’avvento della televisione era possibile lavorare di fantasia, persino inventare (i grandi giornalisti erano grandi mistificatori, grandi inventori), elaborare le azioni o immaginarle, intonare “naturalmente” la storia sulla corda epica, la più congeniale. La cronaca sportiva, insomma, era l’ultima propaggine di una tradizione epica in mano agli epigoni, epica popolare, da cantastorie. Penso al ciclismo visto da Ambrosiani, da Pratolini, giù fino a Brera. E anche alla sua versione, altrettanto “naturale”, eroicomica, di Campanile o di Giovanni Mosca (o a quella d’occasione, enogastronomica, di Veronelli Brera Mura).
Di tutt’altra intonazione e consistenza è la poesia quando prende a suo oggetto (perché questo accade) un momento sportivo. Lo sport in questo caso non vale in sé, è un pretesto. Non è inteso nella sua specificità ma nei suoi segni simbolici, nelle sue metafore implicite, un materiale poetico bell’e confezionato. Il poeta, cioè, sceglie lo sport per un uso “altro”, per parlare d’altro, sfruttandone i simboli. Diciamo inoltre che con la poesia il campo è ristretto, al novantanove per cento, al calcio, da Saba a Sereni a Giudici a Barberi a Cucchi, mentre esemplare è Buffalo di Montale, in cui il pretesto metaforico di un’immagine cancella l’accidente. Avrà mai visto una gara ciclistica su pista, di stayers per di più, Montale? Il motivo di questa preferenza calcistica è che i poeti, coloro che scrivono versi, sono tifosi di calcio, che vedono però con occhi diversi dagli altri tifosi. Almeno nel loro verseggiare: raccolgono materiali d’uso, ripeto, senza preoccuparsi delle sovrastrutture ontologiche, antropologiche, sociologiche, linguistiche, semantiche…
Io il problema me lo sono posto e mi sono domandato se esiste una probabilità letteraria di andare oltre la mera descrizione, più o meno enfatizzata, dell’avvenimento, un modo di fruire di quell’esperienza uscendo dagli stadi e dalle piste. Il cinema, quello americano, ci ha provato e anche con successo. Eppure si direbbe che lo sport non ispira, nemmeno nella sua dimensione bancaria in cui si è trasformato o in quella malavitosa che lo circonda (dalle scommesse alla droga). A me, per esempio, piacerebbe fare un’inchiesta “raccontata” sulle mogli dei calciatori in particolare, degli sportivi in generale (ricordo che ne scrissi, un incipit, in una intervista a D’Antoni molti anni fa). Non ho trovato chi mi pagasse e il progetto è rimasto lì. Proposi pure un libro intitolato La puzza dell’eroe, dove per puzza si intendeva il sudore dopo la gara e la location (come si dice oggi) era lo spogliatoio: desublimazione al massimo dell’eroe sublimato. Idem come sopra. Una quindicina d’anni fa scrissi per un quotidiano dieci cartelle ogni domenica: si trattava dell’incontro con un campione (e della sua casa e della sua famiglia) senza mai parlare di sport. Piacque molto a Brera, che mi sollecitò a farne un libro. Idem come sopra. L’ho detto qui non per lamentarmi da vittima del sistema, bensì soltanto per dimostrare che esistono possibilità di affrontare il tema al di là della cronaca. Ne deduco, in ultima istanza, che ai lettori “sportivi” e agli editori questa particolare letteratura non interessa e men che meno interessa agli scrittori. Perché? Innanzitutto perché preferiscono assistere all’avvenimento piuttosto che leggerne la degradata narrazione. L’ho detto all’inizio: non sfugge agli scrittori che lo sport, sia come fenomeno liturgico sia come manifestazione gratuita di gioco, è morto, non c’è più ed è paradossale pensare che ne abbia una sua esistenza letteraria. Largo al sociologo e all’antropologo.
Proprio nulla? No, qualcosa c’è. Ecco, io dò tutte le Cinque poesie per il gioco del calcio, che “sportive” non sono (semmai esistenziali), per un aggettivo che Saba introduce nel suo Sobborgo parlando di un “giovane barista” triestino: “mi fa un caffè come un trionfo, e i buoni / occhi in volto gli ridono sportivi”. Di meglio non trovo, restando in tema, in tutta la letteratura italiana del Novecento. D’altra parte sono convinto che “esiste una razza assai più pericolosa di quella degli sportivi che fanno i letterati (sodalizio fortunatamente ridotto): sono i letterati che fanno gli sportivi”.
 
Folco Portinari