Carmine Tedeschi, Nel giardino del padre

08-11-2005

Paesaggi d'infanzia perduti, di Raffaele Nigro


Coniugare dialettalità, descrizione dei luoghi e memoria per far emergere nel contrasto i guasti dei tempi correnti costituisce una miscela sempre esplosiva per chi voglia narrare i mutamenti, gli sconquassi, ma anche la bellezza di un tempo e di luoghi travolti dalla modernità. Così il romanzo di Carmine Tedeschi, Nel giardino del padre (edito da Manni, uno dei pochi editori italiani disposti a portare al primo esperimento).
Di Tedeschi avevamo letto qualche racconto e molte recensioni. È uno abituato a leggere gli altri prima che a farsi leggere. Ed eccolo dunque in libreria, con una vicenda che ricorda I tre fratelli di Francesco Rosi: il film parlava di tre fratelli appena richiamati alla casa natale, sulla Murgia barese, dalla morte improvvisa del patriarca. Nell’incontro venivano fuori memorie ed esperienze di vita e dunque il mutare di sé nel mutare dei tempi e dell’Italia. Nel nostro caso sono quattro fratelli ad essere richiamati nella antica casa del padre, in un centro del subappennino dauno, dalla morte di un genitore, del quale diventano metafora di sopravvivenza e di rocciosità la casa e il giardino e nel giardino un’araucaria intorno al cui destino di pianta attaccata dai parassiti si appunta l’attenzione dei figli. La metafora della fine o della continuità.
Romanzo autobiografico, nell’accezione di un’autobiografia di sensazioni e di memorie collettive (Tedeschi è non a caso originario di Serracapriola, in provincia di Foggia, luogo del cuore e della memoria), Nel giardino del padre vuole porsi al di fuori di ogni compiacimento al mercato, con coraggio, fuori di quel raccontume d’azione, già con la pagina introduttiva di riflessione sul significato di un paesaggio. Un paesaggio, quello dell’infanzia, che lo ritrovi ad ogni ritorno, lo vorresti intatto, e in apparenza lo è, ma nel profondo muta.
Il romanzo di Tedeschi è la registrazione di quel mutamento. Fatto attraverso quattro lunghi flashback che raccontano quattro vite parallele. E non a caso si apre con un funerale, il funerale del padre, Giovanni Testa, ex sindaco del paese. Come dire il funerale del mondo arcaico, del passato, di una realtà che si può fare oggi solo memoria. Anche gli affetti tengono in vita il paesaggio. Il ritorno a casa servirà a far prendere coscienza ai figli dei mutamenti avvenuti in se stessi e nel paese: Vittoria, Margherita, Italo e Benito. Una famiglia nei cui nomi è tutto il destino dell’Italia del Novecento. Benito rifletterà sulla propria famiglia distrutta, nonostante un’attività commerciale fiorente. Italo, docente universitario, prenderà coscienza di una società di intrallazzi e di frantumi morali, Vittoria della propria vocazione alla musica ridotta al silenzio e al fallimento dalla necessità di lavorare e dunque di emigrare. L’incontro serve a tutti per far discutere sui propri vissuti e sui cocci individuali, per raccontare delle maschere ormai nude sul grande sfondo di un fallimento collettivo, quello della società, del Mezzogiorno, dell’ambiente, di rapporti.
Ma ciò che è interessante nel romanzo è il linguaggio, quotidiano ma non realistico, riflessivo e al tempo stesso lontano dal flusso di coscienza, con una sperimentazione fatta di parole della oralità accorpate a formare locuzioni e quasi dei modi di dire, ricco di dialoghi a prima vista inessenziali ma che sono il sale della vita nella provincia assonnata. Utile tutto questo a dare il passo del racconto, il rapporto tra locale e globale, antico e moderno, passato e presente, stasi e mutamento. Una capacità descrittiva straordinaria, che ci rende avvertiti di come Tedeschi sappia giocare come pochi con le parole, ma una disponibilità descrittiva che rischia di tradire l’autore, producendogli un innamoramento della descrittiva e talvolta una pericolosa dispersione nel labirinto della coralità deuteragonista e l’abbandono di quelle che nel romanzo medio di qualità si chiamavano le ragioni del lettore.