Claudia Patuzzi, La stanza di Garibaldi

18-06-2006

Storie piccole e grandi rintanate nella "Stanza di Garibaldi", di Maria Grazia Rongo

Ci sono immagini che la memoria ci rimanda sbiadite, come quelle vecchie foto che a volte, presi da improvvisa malinconia, tiriamo fuori dalle scatole di latta riposte in fondo a cassetti chiusi a chiave. Così, quasi in una sorta di salvifica celebrazione del «come eravamo», al tempo stesso intima e corale, prende vita il romanzo La stanza di Garibaldi di Claudia Patuzzi, edito da Manni.
È questa la storia di una famiglia (proprio quella dell’autrice) in bilico tra Italia e Belgio, tra anelito al sole e al mare e scoraggianti ritorni sui propri passi, ma soprattutto tra volontà di ricordare e desiderio inconscio di tenere gli scheletri ben chiusi negli armadi. È la storia dello zio Ghislain Balthasar, un «emarginato», un «vinto», vittima di tre abbandoni, tre rifiuti, tre buchi neri che lo inghiottirono del turbine impazzito dell’Europa lacerata dalla prima guerra mondiale. Nato fuori dal matrimonio, Ghislain fu abbandonato dalla madre quando questa sposò un italiano e fu costretto dal nonno a prendere i voti.
Una storia nella Storia, quella della famiglia Balthasar, dove i protagonisti sarebbero stati votati all’anonimato se proprio Ghislain non avesse convinto la nipote scrittrice a raccontare la saga della loro famiglia.
Leggiamo tra le righe che quella di scrivere deve essere stata una decisione sofferta da parte dell’autrice. Una decisione rimandata più volte, accantonata a lungo, che sarebbe stata chiusa, come le vecchie foto, in un cassetto, se non ci fossero state le numerose lettere dello zio a rinnovarne sempre la promessa.
E così, con una rivivificazione quasi pirandelliana, vengono strappati dall’oblio e prendono corpo personaggi che finalmente hanno trovato un autore. Tra tutte spicca la figura della madre di Ghislaina, Eugènie, «amata nobis quantum amabitur nulla» direbbe il poeta latino.
Ma «che cos’è la memoria?», si domanda e ci domanda l’autrice. «Da dove viene? dove sta? È il cervello la madre della memoria? O la memoria, come una cattedrale gotica, rappresenta un mondo a sé costruito da infiniti mattoncini di fronte ai quali il nome del primo progettista si è dissolto per sempre?». Claudia Patuzzi sembra servirsi di tali quesiti per ricongiungere i tasselli della propria esistenza a quelli, consunti dal tempo e dai dolori, dei suoi familiari, ridisegnando un albero genealogico che non potrà più essere modificato, perché sono scomparsi il mistero, il sospetto, la vergogna che spesso aleggiano su ciò che non si conosce appieno.
Ripercorrendo la storia di questa famiglia patriarcale, dove le donne hanno il ruolo «marginale» di amare, l’autrice dà un senso anche alla propria storia, a quell’essersi soffermata tante volte sul volto «svagato» di sua madre Henriette, sorellastra di Ghislain, per carpire il senso di una malinconia latente, frutto di un vuoto ancestrale e arcano.
Ora la scrittura ha restituito allo zio Ghislain il giusto posto nel mondo. Egli non è più «una macchia», «un intruso» o «un ossimoro», come si firma in alcune lettere inviate alla nipote, ma è diventato il protagonista di questo romanzo. E lo è diventato anche grazie alla grande capacità narrativa di Claudia Patuzzi, la quale si avvale di una scrittura sobria e ricercata al tempo stesso, che in alcune pagine rasenta la poesia. Una scrittura d’altri tempi, potremmo dire, resa moderna da quell’affannoso rincorrersi delle parole, tra passato e presente, che poi si ferma e si placa nella «stanza di Garibaldi» (una stanza di palazzo Fata, a Macerata, dove realmente soggiornò l’eroe dei due mondi) che da luogo del sogno e dell’assurdo diventa luogo del possibile.
Scrive Dacia Maraini nella postfazione al libro: «Questo romanzo familiare è un atto di fiducia gloriosa nella memoria», ma forse, aggiungiamo noi, è anche di più. È la dimostrazione di poter ribaltare la storia, le storie, leggendole da un’altra prospettiva. È la conferma, che trova il suo precedente più illustre nella Storia di Elsa Morante, che «gli ultimi» sono coloro che «scoprono il mondo». «O meglio, l’originale del mondo, di cui la Storia è solo la copia indecente e volgare».