Lino Patruno, Alla riscossa terroni

20-12-2008

Mezzogiorno, ancora il piatto piange, di Giuseppe De Tomaso

Domande. Perché al Mezzogiorno non è riuscito quello che sta riuscendo all’ex Germania dell’Est, che dopo aver patito l’orwelliana dittatura della Stasi, mirabilmente descritta nel film Le vite degli altri, ha quasi raggiunto lo sviluppo economico ottenuto dall’Irlanda e dal Galles, territori anglosassoni che solo pochi lustri addietro non offrivano altro che ciminiere per intossicarsi e bar per ubriacarsi? Perché al Mezzogiorno è vietato il miracolo mediterraneo realizzato dalla Spagna, che neppure trent’anni fa richiamava l’idea di Medio Evo, di certo non la fantastica Barcellona dell’archistar Bohigas o la movida delle sue isole da sballo? E già, perché? Perché il banco si Santander è l’Alonso del sistema bancario europeo, e già detta legge nel mondo iper-corporativo della Formula Uno dato che, dal campione iberico a quattro ruote, Emilio Botin (patron del Santander) possiede di fatto il cartellino?
Quando troveremo una risposta condivisa a questi interrogativi sapremo perché il Sud è rimasto quello che era: un deserto di occasioni fallite, interrotto qua e là da alcune oasi di occasioni riuscite. Davvero poco per brindare a champagne come nella notte di San Silvestro. Né serve consolarsi con l’idea che, sì, però, noi abbiamo il sole e quel bauscione (eufemismo) del Bossi no, o che da noi gli appartamenti costano la metà, o che lo stesso Nord non può scaricarci come una lavatrice rotta, dal momento che restiamo pur sempre una bella riserva di consumatori. Mica sono ciglioni quelli della Padania? Ragionare così, con il retropensiero dell’assistenzialismo passivo, significa riconoscere che non è ancora tramontata la stagione filosofica dei Basilischi (1963), capolavoro in celluloide di Lina Wertmuller sulla pigrizia cronica dei meridionali. Siamo davvero così? Non proprio. Ma non siamo ancora irlandesi.
L’ex direttore della “Gazzetta”, Lino Patruno, da decenni si batte come un leone per svegliare le coscienze di chi può fare qualcosa per il Sud: dai meridionali stessi ai loro leader politici, dagli imprenditori ai sindacalisti, dalla cosiddetta società civile alla nomenklatura nazionale. I suoi pezzi sono autentiche frustate per chi può impegnarsi, ma eccelle in neghittosità, o nella sppecialità della casa già denunciata dall’economista Antonio Genovesi (1713-1769): il nonsipuotismo, il dire no a qualsiasi iniziativa dell’altro, il trasformarsi reciproco in tanti Ghino di Tacco pronti a chiedere il pedaggio a chi vuole correre più veloce di noi.
Non capita spesso che un’antologia di articoli possa sfociare in un libro ex novo, con tanto di capitoli, di temi e problemi in lucida sequenza logica e cronologica. A Patruno e al suo Alla riscossa terroni, l’operazione è perfettamente riuscita. Il volume, che si apre con un’introduzione di Giuseppe Vacca e si chiude con una postfazione di Gianfranco Viesti, è una sorta di vademecum virgiliano per chi voglia approfondire il fallimento del meridionalismo.
Il saggio non poteva avere un titolo più azzeccato, perché Patruno tutto è tranne che un fustigatore sadico che prova piacere nel far male ai suoi conterranei. Anzi. Patruno è un intellettuale, un meridionalista innamorato della sua terra e come tutti i veri innamorati ritiene la propria innamorata più seducente e intrigante di Carla Bruni, anche se il suo corpo è un fiume di difetti e la sua anima è un delta di peccati. Ecco, il Sud e in particolare la Puglia sono i grandi amori (ideali e professionali) di Patruno. Chi scrive, può testimoniarlo in presa diretta. Anni e anni di conversazioni giornaliere, quasi gomito a gomito, sul Mezzogiorno fermo come una statua e incerto come l’attuale Veltroni, sui libri dei nostri intellettuali, sugli insulti provenienti dal Nord, sulle diffidenze da parte degli economisti dell’Italia ricca, sulla tendenza di molti imprenditori nostrani a preferire il potere al profitto, sulle colpe dei ceti politici della Prima Repubblica che quando hanno avuto le chiavi della stanza dei bottoni nazionale non hanno fatto altro che azionare i pulsanti sbagliati: quelli del (loro) notabilato correntizio. Nulla da fare. Come testimonia anche l’odierno caso Napoli, il Sud sfugge ad ogni classificazione di maniera.
Negli anni ’50 si è tentata la carta liberista, col tempo moderata dalla degasperiana ed efficiente (sì, allora fu efficiente) Cassa per il Mezzogiorno: bravi progressi, ma nulla più. Diciamo: 6 in pagella. Poi è arrivato il turno della lezione keynesiana, spesa pubblica e incentivi alle imprese. Sviluppo alla moviola. In compenso più lavoro ai magistrati e voti ancora più bassi in pagella.
Uno può pensare: Ma che volete, voi del Sud? Volete ammettere che vi siete fregati e vi state fregando da soli? Un momento, osserva Patruno. Noi abbiamo il diritto di parlare male di noi, non voi che siete di Milano ladrona (sì, Milano ladrona). Ci avete fregato sull’Intervento straordinario che ve lo siete pappato in gran parte voi, sommandolo all’Intervento ordinario che è andato tutto nelle vostre valli. Ora volete gabbarci con la menata del federalismo, che neppure il Senatùr sa bene cos’è. Si sa solo che serve a indirizzare e aumentare i flussi pubblici in direzione del Nord, senza preoccuparsi più di tanto degli effetti dirompenti che la manovra provocherebbe al di sotto di Roma. Che il federalismo fiscale sia una boiata pazzesca come la fantozziana Corazzata Potemkin, lo si capisce dal no leghista all’abolizione delle Province, che significa no alla riduzione della spesa pubblica.
Il guaio è che il Nord è ricco, mentre il Sud resta quello che è. E siccome non risulta che sia andato in disuso il detto “articolo quinto, chi ha in mano ha vinto”, l’Italia danarosa continua a dare ordini con il piglio della padrona. Perché è accaduto? Colpa dei partiti o dei non-partiti, della borghesia o dell’anti-borghesia meridionale? Del fantasma statale o del diavolo mercatista? Lino Patruno ve lo spiega alla sua maniera, con uno stile avvincente, e soprattutto senza se e senza ma. Vi ritroverete la battaglia di questo giornale.