Rescigno-Lerro, Gli occhi sul tempo

01-11-2009

Poesia ancipite, di Eugen Galasso

Succede che, oltre alle sillogi e antologie (qui, proprio facendo riferimento all’ètimo, un livello non è uguale all’altro, certo non tout court), ci sono volumi che raccolgono poesie di autori analoghi tematicamente diversi, ma analoghi dal punto di vista stilistico o nei quali la differenza possa creare un vulnus sintomatico, un elemento comune nella profonda diversità, per cui si raggiunga un’emblematizzazione significante. Se mi è permessa la digressione ‘personale’, ricordo che negli anni Novanta, precisamente a metà, avevo pubblicato con Michele Capanna Poesie senza titolo(Silk Apple). Come sempre, differenze, analogie, affinità, altro ancora.
Ma la poesia è anche confronto, ‘dialettica’, se vogliamo, purché si sappia chiarire che cosa intendiamo appunto con questo lemma. In quel caso, però, si trattava di due autori della stessa generazione, dalle esperienze esistenziali simili, se pur diversi quanto alla formazione. Qui, con Gli occhi sul tempo di Gianni Rescigno e Menotti Lerro (San Cesario di Lecce, ediz. Manni), invece, le differenze generazionali non sono da poco, eppure, quanto a poièsis, qualche analogia sarebbe riscontrabile. Poesie che partono dalla sofferenza come anche dallo stupor mundi, che stilisticamente
amano la brevitas, in autori nei quali (grazie al cielo, peraltro!) non c’è mai “la rima perduta tra cuore e dolore” (Gianni Musy), pur se rimangono, come giusto (altrimenti saremmo cyber, se non macchine, addirittura) spazi formidabili per la creazione autonoma e “altra”, individuale, come sempre la poesia. Chiaro che le esperienze di vita (“esistenziali”) diverse, per ovvi motivi, le formazioni anche analoghe ma diversificate (lo studio, anche per le metodologie critiche diverse incontrate, all’università ma anche e soprattutto dopo, con le letture, la riflessione, con il “precipitato dei sentimenti”), creano non un vortice differenziante, un gap irriducibile, ma sicuramente quanto si diceva sopra, ossia una creazione che si caratterizza comunque come autonoma, come diversa. “Sdegno verso il presente”, quale minimo comune denominatore, come rileva peraltro nel suo breve saggio introduttivo Walter Mauro (op. cit., p. 14). Ancora, la “narrazione” (poesia narrativa, potremmo dire, con Giorgio Bàrberi Squarotti) che accomuna, stanti le indubbie e non inessenziali differenze, i due poeti, divisi dalla geografia oltre che dalle esperienze e dal “peregrinare nel tempo” (e attraverso lo stesso). Ecco allora che, per es.: “Me l’ha forse preso (sott.: il nome) il pensiero / più pesante della vita / incapsulandolo nell’unica parola / che mette in ginocchio il Tempo: Amore” (G. Rescigno, op. cit., p. 21 nel componimento Non chiedermi). Volendo, è certo una variazione sul tema eterno dell’Amor vincit omnia, ma nell’ “omnia” si accentua la categoria del Tempo (non a caso in maiuscola), che, nonostante la prospettiva post-einsteiniana nella quale viviamo, è altro dallo spazio e da altro, è “another king,” è la dimensione prioritaria dominante-“tiranneggiante” l’esistenza. Il tempo come dimensione quasi onnivora, non a caso nel Novecento accostato all’Essere, come endiadi divaricata (Sein und Zeit, Essere e Tempo di Heidegger, ma non solo) oppure invece come dimensione da superare (la durée-durata bergsoniana contro il temps meramente cronologico in Bergson). Una prospettiva certamente
migliore, più “propositiva”, quella bergsoniana, quanto non beotamente sic et simpliciter “ottimistica”. Ecco allora, se c’è qualcosa che riesca ad aprire una faglia nel tempo, ciò è l’amore, che crea il cuneo
della durée, del tempo che sentiamo-percepiamo-vogliamo, non di quello che meccanicamente ci viene imposto come “barbaro nello stile d’Attila” (Paul Fort). In Menotti (con questo nome eponimo che richiama, nella differenza abissale, sia Ciro Menotti sia Menotti Garibaldi, alias Garibaldi junior) Lerro, poi, il Lebenschmerz (dolore della vita, alla lettera, dolore esistenziale, c’est fort mieux…) espresso con voluta antiretorica, quale tenue rivolta contro il tempo: “Gli occhi non le unghie diventare lunghe / il millimetro giornaliero. / Ci ritroviamo grandi per le nostre scarpe, / il cappottino con le iniziali ricamate sopra. / Ma guarda, ho trent’anni e non me ne sono accorto” (op. cit., p. 133). Una consapevolezza appunto millimetrica (mèmore di un grande romanzo di Richard Matherson e di
vari racconti di Jean Cau, anche segretario di Jean-Paul Sartre, e non importa affatto che Lerro eventualmente non li conosca, pur se ne dubito fortemente) dello scorrere ineluttabile, dove l’“altro” è la soggettività, anzi meglio l’individualità, vissuta anche attraverso un’esperienza particolare, quale un viaggio nel Sur (Sud) della Spagna: “Un vecchio zaino di conchiglie e pietre / il rumore dei treni sgangherati nel Sur della Spagna. / I mezzi di fortuna a cui chiedere un pezzo di strada, / raccontare i colori dei sogni. / Ricordo il terrore della Sagrada Familla, le dodici cime, / i segni del cemento sul viso al risveglio nella stazione, / le donne possedute negli angoli caldi e improbabili, / il grido restituito all’oceano. / Il viaggio non è mai finito, / dalle pareti della mente / gli echi del suo calpestìo / non saranno mai assorbiti” (op. cit., p. 140). Ma questo “controparere utopico” (mi si perdoni l’invenzione terminologica un po’ atipica e solo apparentemente antipoetica) anche in Rescigno ha il suo pendant: “Ti sogno. / La tenda, il deserto, / i fiori di cactus. / Sei passata per vie sentieri / piazze di metropoli. / Ti porti dietro uomini e uomini / fuchi con ali d’uccelli. / Senza sipario è lo spettacolo della tua bellezza […] / Miraggio d’estate / nuoti in acqua d’impossibile amore […]” (op. cit., p. 62, poesia L’ape regina che, per ragioni di spazio, ho dovuto brutalmente “ridurre”, couper…). Che sia l’amore (meglio: un fantasma d’amore), che sia il senhal del viaggio (qualunque, pur se si presentifica magari in un viaggio determinato), che sia la preghiera (in Rescigno – ma è preghiera molto sui generis – prescindo in ogni modo da una valutazione sulle opzioni di fede, in quanto è questione personale, che non attiene e “morde” solo relativamente sulla poesia – cfr. i casi “opposti” – ? – di Pasolini e Testori) oppure la “luce promessa” (Lerro – vale quanto sopra – con le ovvie differenze di cui anche sopra), l’alternativa c’è sempre, altrimenti si direbbe tout court di sì alla Grande Falciatrice, che tante volte torna anche in questo libro, ma non è poetico e non è umano, appunto, accettarla senza dire nulla…