Andrea Manzi, Morire in gola

11-10-2010

Il giornalista “liberato” dalla poesia, di Rossano Astremo

Andrea Manzi, giornalista, vicedirettore del quotidiano “Roma”, autore di saggi di argomento sociale e politico e di due testi teatrali, non disdegna la pratica del fare versi. Ha pubblicato con Manni, di recente, Morire in gola, sua seconda raccolta che si avvale di un’attenta introduzione di Maurizio Cucchi. Il libro si presenta al suo interno in tre sezioni: Castelvolturno, il ghetto. (Quadri), Occhi d’inverno, Mari. Ciò che emerge da questa lettura è che Manzi considera la poesia come strumento attraverso il quale poter abbandonare il dosaggio razionale della scrittura giornalistica per lasciarsi andare a modalità di composizione più destrutturati e liberi. È la realtà in tutta la sua contemporanea caducità a divenire oggetto privilegiato della rappresentazione di Manzi. Questo corpo a corpo con il mondo è vissuto dall’autore in agonistica e sanguigna lotta. Non c’è posto per abbassamenti di tono. La poesia include vasti campionari di realtà derelitta e il fraseggio del suo poetare è percussivo, ossessivo, magma esploso, incontenibile: “andare venire tornare – due / pullman al bivio fermi spenti vuoti / ingoiano gente e s’abbuffano a sbafo – carne e carne / nel corpo chiuso due fori di bocca – si sale e si scende / li lascio andare venire tornare / io non entro nella pancia ferrosa dei pullman / brontolano e gemono di tipi dannati / che soffocano nel deserto di abbracci assoluti e galleggiano / nel tanfo greve – quotidiana solfatara ambulante / s’allenta smorta la morsa alle fermate – sono stazioni di sudate / vie crucis deportano i corpi alla dimora / è un quotidiano morire quest’uggia inscatolata dentro bare su gomma”. Un breve estratto del volume in questione, quello appena riportato, che ben evidenzia il fiume in piena del linguaggio di Manzi, che, a ragion veduta, spinge nell’introduzione Cucchi ad esprimersi così: “Un’inquietudine quella di Manzi la quale sembra cercare una parola che sempre più si faccia come carne, che si faccia materia viva e pulsante, forse anche per distogliersi dallo spettro o dall’incubo di quella morte che è invisibile e losca”. Un libro che strizza l’occhio ad alcune movenze neoavanguardiste, il cui limite, forse, è proprio il fatto che la carne messa al fuoco è troppa e difficilmente contenibile in un percorso di senso lineare. Nel caos è difficile trovare la strada. È, forse, proprio questo il messaggio che Manzi vuole consegnarci i suoi versi.