Sud, l'assistenzialismo ci ha reso subalterni, di Felice Blasi
Lino Patruno ha raccolto in volume, con introduzione di Giuseppe Vacca e postfazione di Gianfranco Viesti, alcuni articoli di fondo che ha scritto negli ultimi anni sulla Gazzetta del Mezzogiorno, giornale di cui è stato direttore. È un capitolo di storia del presente del Mezzogiorno, dall’introduzione dell’Euro al dibattito sul federalismo, nelle reazioni del giornalista e dell’editorialista che interpreta la storia nel momento del suo farsi. Le sue emozioni sono ogni volta evidenti e, leggendo gli articoli in ordine cronologico, se ne ricava tutta un’evoluzione di speranze e delusioni, di slanci e di indignazioni. Accanto alle analisi, il libro contiene però un secondo libro, meno palese alle stesse intenzioni dell’autore, che è diario morale, rispecchiamento psicologico dei sentimenti di un’intera collettività meridionale nelle parole di chi, a quella collettività, è chiamato a dare voce.
Gli articoli oscillano tra le regioni che dovrebbero dare forza ed orgoglio ai meridionali e l’analisi delle cause che hanno impedito al Sud di crescere come avrebbe potuto. La tesi generale è quella, peraltro diffusa tra gli studiosi, dell’uso della spesa pubblica per dare liquidità ai meridionali in modo solo temporaneo, quel tanto da trasformarli in consumatori di prodotti realizzati altrove. Questa impostazione è stata trasversale agli schieramenti politici e alla geografia, cancellando la capacità e la voglia stessa dei meridionali ad essere produttori: «Li ha coperti – dice Patruno – più di assegni di assistenza che di capacità di fare profitti, li ha abituati più a presentare la domanda di contributo che ad aprire la fabbrichetta, ha disseminato più assegnazioni che capannoni, più rendite che utili. Un ceto sociale e politico non solo meridionale che ha bloccato per i propri interessi troppi tentativi di riscatto e di modernizzazione del Sud».
Non si è trattato solo di aver impedito la realizzazione di prodotti «Made in South Italy»: Patruno non ha una visione strettamente industrialista del mancato decollo del Sud. È stata negata proprio la costituzione del Sud come soggetto di sé, la possibilità che da esso partisse una concezione della vita e del proprio futuro che non fosse quella decisa da altri. Non a caso Patruno cita più volte il sociologo barese Franco Cassano che su questo punto, da Il pensiero meridiano (1996) in poi, ha molto insistito. Il caso Puglia dimostra che c’è al fondo una mancata valorizzazione delle cose e soprattutto delle persone meridionali. I pomodori inscatolati da altri come passata, l’olio venduto sfuso a chi ne ricava prestigiose bottiglie di extravergine, uva ed ortaggi che diventano vini ed insalate con altre paternità, e così via. Stesso destino per i giovani e per tutte le persone migliori nate qui, che solo altrove possono trovare riconoscimento. Un riconoscimento pagato però con l’emigrazione e con un’integrazione mai vera in altre comunità, cosa che soprattutto oggi, in epoca di nuove discriminazioni geoculturali e geopolitiche, torna a pesare.
Una possibilità sta forse nel riuscire a cogliere quante risorse di soggettività meridionale sono da riscoprire. Ma non in chiave celebrativa di un orgoglio localistico o «terrone», cosa che forse il titolo del libro, scelto in modo ironico e piuttosto infelice, induce erroneamente a pensare. Bisogna leggere quelle risorse come riserva di identità nazionale, e tutto il meridionalismo va interpretato in questa chiave: «Il meridionalismo è stato – scrive Giuseppe Vacca nell’introduzione – il solo continuatore del pensiero politico risorgimentale poiché, se questo aveva affrontato il problema dell’Unità d’Italia, il meridionalismo ha scavato nelle cause della sua fragilità e della sua congenita, debole competività».