C'erano una volta gli indiani metropolitani, di Pablo Echaurren
Il ’77 non è solo l’anno del piombo (inferto & subito), è anco l’anno del girotondo, del combo, delle facce pitturate, delle schematizzazioni inceppate, è soprattutto l’anno dell’autoironia, dell’antinomia, dell’autonomia, autonomia dalle mediazioni, dalle imposizioni, dalle definizioni troppo striminzite, troppo risicate.
Ma infatti!
Ehi tu, Giacca Blu, borghese fradicio di politichese, chiedo la vita e mi dai la morte, allora sono io che voglio la tua, di morte! Dissotterriamo l’ascia. Apache, cheyenne, sioux, mohicani, siamo gli indiani metropolitani! Sul piede di guerra!
Nient’altro che un branco di mocciosi che a certi paiono addirittura dei sovversivi minacciosi con le loro armi giocattolo in plastica. Dei pericolosi untori - dicono lorsignori - sabotatori della società costituita e prostituita, e invece sono semplicemente degli inguaribili curiosi, privi di futuro, degli ingenui smaniosi di fare presto giacché avvertono che in breve saranno bruscamente stoppati, disillusi, che il loro progetto di scardinamento del sentimento sta per fare miseramente naufragio contro lo scoglio dell’esistenza, come scrisse Volodija un istante prima di piantarsi una pallottola dritta nel cuore (il mare retrocede… la barca dell’amore si è infranta contro la vita quotidiana).
Perché, hai voglia a sperimentare forme inedite di comunicazione, hai voglia a cercare di svecchiare i sentimenti, loro sono immutabili, sono sempre quelli, spietati con i deboli, inesorabili con i sensibili, alle foglie, alle doglie, alle soglie dei trapassi.
Che ne potete sapere voi, oggi, dei tormenti di Massimo che ama Paoletta, di Maurizio che ama Arianna ma si perde nel labirinto, non riesce a convincere il Minotauro che sarebbe bene per tutti se lo lasciasse uscire incolume a consumare il suo fantasma d’amore? Nada de nada.
L’amarezza di chi si accontenterebbe d’una semplice carezza mentre rimane succube di maschere, ruoli, schermi, degli schemi scemi che schiavizzano gli umani, che li incatenano a prestazioni in cui non si riconoscono e che trasmettono un senso d’inadeguatezza. Soprattutto in chi non si sintonizza sulla loro lunghezza.
“Come da bambino quando, prima di andare a letto, ti prendevi l’orsacchiotto lo coccolavi e tranquillo ti addormentavi, era la tua sicurezza ma anche il tuo freno a accettare, affrontare la realtà che non ammette orsi di protezione”.
Nei giornali, nelle inchieste sui giovani furiosi, nei romanzetti pruriginosi, si blatera a vanvera di liberazione sessuale, ma intanto Massimo non sa come si fa a scopare, testuale, non c’ha ancora mai provato, un po’ gli fa paura il fatto in sé, un po’ qualcuno gli ha detto che fa male, inoltre pensa che non è lecito intingere il pennellone come un qualunque bestione infoiato, non si può deflorare con dolore la propria metà del cielo, che la penetrazione è una violenza intollerabile per entrambi, che bisogna cambiare sistema, trovare il modo di non ferire, di non infierire, di non fare più soffrire nessuno, a costo di farne le spese personalmente, radicalmente. Astenendosi.
Ne parliamo a lungo e io, con qualche esperienza di più in materia e qualche remora in meno, giù a spiegare che non c’è niente di terribile in un poco di sanguine ex inguine, che è la natura che pretende questo pedaggio, che è sempre stato così da che mondo è mondo, che è un passaggio obbligato, ma lui non ci sente e dice che vuole creare una situazione speciale per la sua compagna, prepararla con delicatezza, magari ritirarsi in campagna per fare il grande passo in armonia col cosmo - i suoi avevano una villa su, a li Castelli - magari con l’ausilio di un certo fungo psicoattivo che ha seccato e conservato religiosamente per un’occasione davvero eccezionale, per allargare le porte della mente, per abbassare il gradino che ci separa dall’abisso dove tutto si ricompone, anche gli opposti, i sessi, i brandelli di se stessi.
Poi, all’improvviso, si rimbocca le maniche del suo stazzonato, blasonato Buerberry bianco per scendere in strada a fare antifascismo militante, il che voleva dire darle e beccarle, a seconda.
Era gracile, mingherlino, mister MasTer, ma ci dava sotto, non si tirava indietro, all’occorrenza si buttava allo sbaraglio, tanto che una volta lo misero in mezzo, gli accollarono una boccia contro un bar di fasci su ai Parioli, una brutta botta per la sua augusta schiatta, comunista istituzionalista, di lotta e di governo.
I gruppetti politici hanno fatto il loro tempo, il loro teatrino è in procinto di venire chiuso per disaffezione del pubblico, per mancanza di testi recitabili, le loro strutture sono ormai prossime alla rottamazione o alla dannazione della lotta armata.
La militanza pura e dura, l’osservanza delle tesi, quelli con le chiavi inglesi che non dicono mai “Sorry!” (specie quando ti calano pesantemente sul cranio), la base, gli angeli del ciclostile, le segreterie nazionali, gli organi ufficiali, i volantinaggi devastanti davanti alle fabbriche alle cinque di mattina, i congressi, gli ossessi , gli ortodossi, gli attivi di sezione, il cordone, la disciplina, le assemblee, le mozioni, le fazioni pronte a sgrugnarsi l’una contro l’altra per conquistare la testa del corteo, il mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa: non ce ne frega più un casso, contano solo le nude emozioni con tutta la loro ridda di contraddizioni dirompenti e insolenti. Inceppanti.
A nessuno fregava più nulla dei carrozzoni guidati dai professionisti della contestazione come non gli fregava una madonna degli arpeggi, dei barockeggi, degli sviolineggi rockocò, dei grandi palchi allestiti per i megaconcerti infiocchettati da fumogeni, sciabolati da giochi di luci e truci effetti speciali, messi su dai vari Fluidi Rosa e via discorrendo che avevano preso il vizio di intellettualizzare il rock around the cock, di ripulire il suono, il tono, di sinfonizzare a tutt’andare e depositare nei nostri padiglioni auree melodie. Troppo sdolcinate, troppo ben articolate, troppo elaborate per essere espressione di quell’acerba improvvisazione che è la linfa vitale dei dilettanti, dei lattanti, dei pop-anti.
Non restava che prenderli a calci negli stinchi, sulle gengive, nelle tonsille, i musicanti reboanti. I pischelli erano stanchi di subire la perizia dei loro accordi elioganti, dei loro ricordi classicheggianti e trashendenti. Nel loro rigo senza sugo c’era talmente poco pogo che era preferibile un qualsivoglia giro stentato, sdentato, smozzicato, fatto di note sorgive, lesive, clasheggianti.
E così, siccome si voleva distruggere lo spartito, altrettanto si intendeva fare col partito, qualunque esso fosse: sputare su Hegel, su Mao, su Lama, che se ne tornasse in Tibet a filare la sua lana istituzionale, sul grande Timoniere, sulle cosche nocchiere che danno e tolgono la linea a loro piacimento e a nostro detrimento.
Si era consapevoli di essere colpevoli di fronte al gran giurì del Piccì, di Ellecì, consci di non meritare neanche un sufficiente in condotta, niente, zero spakkato, di essere degli ignoranti, predestinati a bocciatura sicura, fratellini di Franti, non di Garrone, irrimediabilmente infranti, rotti dentro, spezzati, disaggregati, ultimi della classe e orgogliosi di esserlo.
Come Marinetti che indicava in Aldo Palazzeschi la vetta della letteratura immatura e aizzava il pubblico becero affinché fischiasse, ortagiasse e omaggiasse l’intrepida somaraggine dei suoi adepti.
Senza più capi - fossero pure Sofri, Piperno, Corvisieri, er sor Capanna - senza la manna, lontani da possibili Bengodi, privi di futuri prefissati, semplici flussi che scorrono liberati ma incapaci di essere spensierati, anzi costantemente insidiati da una vena di delusione, di nera previsione, quasi una pulsione majakovskijana al suicidio collettivo appena mitigata da una gioia affettata.
Abolizione dei carceri minorili e del foglio di via. Requisizione di tutti gli edifici sfitti per la loro utilizzazione come centri di aggregazione e di socializzazione, per una vita alternativa fuori casa. Riduzione generale dei prezzi di cinema, teatri e di tutte le iniziative culturali, calmieramento a una cifra fissata dal basso, cioè da noi. Liberalizzazione totale della marijuana, di hashish, Lsd, peyote, con monopolio esercitato dal movimento. Retribuzione dell’ozio giovanile. Lavoro zero reddito intero. Demolizione degli zoo e diritto di tutti gli animali prigionieri di tornare nel loro paese d’origine a ruggire, barrire, gioire. Abbattimento dell’Altare della Patria e sostituzione di esso con orto botanico e con annesso laghetto atto a ospitare anatre, cigni, rane e altra fauna ittica, varia e eventuale. Istituzione di Ronde Antifamiglia Militanti per strappare i figli alla tirannia patriarcale. Per affrancarli dalla psicopatia familista, dalla Grande Astuta Mater Matuta.
Massimo ha infisso in una mela una decina di canne servendosi della capacità di penetrazione dei loro filtri di cartone, come fosse una mina marina con le spolette a raggiera e tutto il resto, poi ha praticato un foro nel frutto e vi ha inserito uno spezzone di bambù, così pole aspirare, attraverso la polpa di raffreddamento, quel ben di dio tutto d’un colpo, senza ustionarsi la gola, scartavetrarsi il velopendulo e disintegrarsi i polmoni alla prima tirata moltiplicata.
Se ne sta in bagno, toro seduto sul trono ceramico, e ha appena acceso il coso, quando suo papà, vecchio senatore e padre fondatore di questa repubblica fondata sul lavoro altrui, apre la porta lasciata inavvertitamente aperta e si trova di fronte a uno spettacolo imprevisto, maivisto, almeno fino allora.
Massimo, ma che stai facendo? Uno sputnik, papà! Semplice. Lo dice con totale noscialans, come fosse la cosa più naturale del mondo, caffè, brioche e cicca evacuativa, nulla di particolarmente extravagante. Il padre allibì, sbiancò, vacillò.
Un’epoca si chiudeva e un’altra si spalancava, su un abisso.
Era chiaro, per Massimo, che doveva trovarsi un posto in cui stare, in cui strippare in santa pace, in cui librare sconvolto senza più pareti e parenti intorno.