Il vampiro e la fanciulla

Il vampiro e la fanciulla

copertina
anno
2008
Argomento
Collana
Categoria
pagine
144
isbn
978-88-6266-037-2
13,30 €
Titolo
Il vampiro e la fanciulla
Prezzo
14,00 €
ISBN
978-88-6266-037-2
Dalle risaie della Baraggia vercellese alla Parigi dell’ultima grandeur, dalla Cambogia in guerra alla Transilvania della leggenda nera di Dracula, dagli ideali rivoluzionari di gioventù al disincanto, il viaggio immaginario fra memoria ed espiazione di un giornalista che, ritiratosi dal mondo, fa il bilancio del proprio vissuto.
Il soliloquio si trasforma in un dialogo con la moglie morta mentre storie parallele si intrecciano: la sorte di una fanciulla incontrata in un bordello di Phnom Penh, un prete in crisi per la scristianizzazione della Chiesa, l’estinzione inopinata di una famiglia di proprietari terrieri.
Immaginato nel tempo immobile di un inverno, un thriller che si trasforma in una estrema meditazione alle porte del regno dei Non Morti.
 
Ugo Ronfani è stato inviato, corrispondente a Parigi e vicedirettore de “Il Giorno”. Ha diretto l’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano, la rivista di teatro “Hystrio” da lui fondata, è stato coordinatore artistico del Bicentenario goldoniano, ha presieduto il Premio Grinzane Cavour. È commendatore dell’Ordine della Repubblica Francese per meriti culturali. Ha pubblicato una trentina di volumi di saggistica, narrativa, poesia, critica d’arte ed è autore di testi teatrali per la radio e la televisione. L’ultimo romanzo è Memoriale delle caverne (Manni 2006).

INCIPIT

Una mattina d’inverno del 1910 la carrozza dei conti de Bosis usciva dall’avito castello trainata da due cavalli fumanti nell’aria gelida, e fra stoppie e rogge ghiacciate raggiungeva le rive del Sesia e spariva nella nebbia della Bassa.

Sprofondato nel sedile, avvolto in una pelliccia che poco lo proteggeva dal freddo, il conte Vittorio guardava intristito il plumbeo paesaggio della Baraggia, fra i sobbalzi della carrozza. A Torino, quando fosse arrivato, l’aspettava un treno per i valichi diretto al Nord, destinazione Dover e poi Londra. Aveva in tasca una lettera dello scrittore Abraham Stoker, in arte Bram, che lo autorizzava a rendergli visita.

Stoker: sì, l’autore di Dracula, la cupa storia di morte che aveva scovato nella biblioteca pubblica di Whitby, Yorkshire. Il principe guerriero della Moldavia soprannominato “figlio del diavolo” perché si nutriva del sangue delle sue vittime. La storia, pubblicata a puntate in America nel 1899 dal “Sun” di New York, è diventata – come si sa – un classico dell’orrore accanto alle opere di Polidori, della Shelley, di Poe. E oggi, grazie alle trasposizioni teatrali e cinematografiche, è conosciuta in tutto il mondo. Tanto che è sicuramente superfluo ricordare il contenuto di questo romanzo; invano Bram ha disposto che il figlio del diavolo fosse annientato con una stilettata al cuore ai piedi del suo castello in Transilvania, in una notte di tempesta.

L’incubo del conte vampiro termina nel libro con un lieto fine, ma non nella letteratura e dunque – si deve arguire – nella realtà; ne ha scritto ai giorni nostri il canadese Kenneth J. Hervey in un romanzo sull’isola di Terranova abitata da morti che ritornano per nutrirsi del sangue dei vivi, immortale progenie di Dracula.

Tutto questo conferma che l’horror è il pane quotidiano della nostra fantasia.

Entriamo nell’era delle guerre stellari ma ci perdiamo ancora come bambini nei boschi degli orchi, ancora crediamo al sabba delle streghe sotto il noce di Benevento, ancora rabbrividiamo in sperdute cineteche davanti al Vampiro di Dreyer dagli aguzzi canini. L’horror gronda dappertutto, nelle cronache nere delle bestie di Satana, nei romanzi dei narratori cannibali, nei fumetti che acquistiamo in edicola coi biglietti della metropolitana, nei film di Hollywood delle nostre notti televisive.

Smarriti nei boschi di atavici orrori, sotto livide lune, siamo incapaci di distinguere fra il reale e l’immaginario. Vaghiamo nel regno notturno dove Dracula non può trovare la pace della morte. L’Eldorado elettronico è l’Amazzonia dei terrori ancestrali. Dall’America, un guru della nebulosa elettronica dalla quale siamo tutti trascinati – conoscete? Si chiama Jaron Lanier – sta convincendoci che il nostro Io in carne ed ossa (ammesso che esista) non è più autentico della sua proiezione on line e, passando dalla teoria alla pratica, ha costruito un monitor multimediale che ruota come un girasole intorno all’uomo, e interagisce non stop con la irreale realtà spazio-tempo cui siamo abituati. Un marchingegno che sta alla macchina del tempo di Bradbury come l’invenzione della ruota sta al jet supersonico.

Chiedo scusa: ero partito al passo dei cavalli di un feuilleton dell’Ottocento, nel viaggio invernale verso Londra del conte Vittorio de Bosis, e ho divagato. Ma c’era una ragione, lo capirete dal resto di questa storia. Che ho deciso di raccontare per vincere il tedio dell’inverno nella Baraggia. Dove mi sono ritirato a vivere per ragioni, diciamo così, private, nel castello oggi in rovina dei conti de Bosis, famiglia estinta di feudatari della Baraggia discendente – si dice – dal Baiardo, detto il Cavaliere senza macchia e paura. Miei nemici di classe – allora si diceva così – quando all’età di vent’anni o poco più ero venuto in questa terra desolata sognando di fare la rivoluzione, com’era allora di moda fra i giovani che leggevano Marx e Majakovskij. In quegli anni ormai lontani qualcosa era accaduto che avevo cercato di rimuovere ma che restava in fondo alla memoria. Niente rivoluzione, le cose sarebbero cambiate ma non perché quelli come me erano riusciti a mutare il corso della storia. La storia non cambia mai, è la forma più antica della fiction del genere umano; quando me ne sono reso conto ho lasciato questa terra dove idee e passioni erano come sementi che marcivano nell’argilla delle risaie. Finite le nostalgie della Bastiglia e del Palazzo d’Inverno, trasformate in osteria le leghe dove i braccianti povericristi aspettavano il sol dell’Avvenire con un bicchiere di Gattinara, trasformate in Comprensorio di Bonifica le sterili risaie, spariti perfino i diavoli e le streghe nascosti nei cascinali fra le nebbie. E travolti dalla malasorte i de Bosis, come dirò. Dopo gli astratti furori della rivoluzione mancata cambiai mestiere; i braccianti povericristi non cantavano più “Addio Lugano bella”, bevevano il loro bicchiere di Gattinara sognando la Seicento e le processioni delle Madonne Pellegrine sostituivano i cortei delle bandiere rosse.

Me ne andai con la malinconia di un fallimento. Majakovskij s’era ucciso; Marx era un fiore secco infilato nei cannoni dei blindati di Budapest. Cambiai mestiere, ma dentro avevo una piccola ferita che non si rimarginava, quella del mio sogno abbandonato di gioventù. Senza tener conto dei dubbi della ragazza della Baraggia che avevo sposato, trascinandola con me in una vita nomade insieme alla nostra bambina, cominciai a fare il giornalista. Ed è stato, il nuovo mestiere, un inganno continuo, sottile, anche se ci ha permesso di vivere con una certa agiatezza (mia moglie, mia coscienza critica, con una certa ritrosia). Sono diventato, in giro per l’Italia, e il mondo, il cronista delle smorfie e delle contorsioni della guerra fredda. Sapevo, ormai, che tutto era apparenza, finzione. Perché avevamo organizzato lo sbarco sulla Luna soltanto per dimenticare Hiroshima. All’epoca dei piroscafi a vapore, anticipando, Stoker aveva chiamato il disordine del mondo il Regno dei Non Morti; gli scrittori del post-Hiroshima lo chiamavano l’Assurdo. Nell’assurdo del mondo Camus raccontava l’incubo del masso che Sisifo doveva far rotolare in eterno; per Beckett il masso della ribellione era, altrettanto pesante, la parola della fine. Con la mia piccola ferita non rimarginata io conducevo inchieste, scrivevo libri e facevo una discreta carriera. Come se fossi sulla nave dei giornalisti coraggiosi del mio amico Jean Daniel: “Nous etions parti, confiantes, à la conquête de toutes les richesses du monde…” Ma non era vero, la ferita non si rimarginava, era morta la speranza. Mi trovassi a Budapest o a Praga, in Indocina o in Algeria, sapevo che era così. Anche se badavo a fingere che continuavo a cercarla, la verità.

Chiedo scusa, continuo a divagare, ma è per dire che in finale di partita (ancora Beckett, scusate), solo, sceso dalla meravigliosa nave di Jean Daniel, fantasma nel mondo dell’informazione, ho deciso di tornare qui. L’illusione era di poter rimarginare la ferita. Con i ricordi, perlomeno: ignorando come nella vecchiaia sono evanescenti, imprecisi.

Qui tutto è cambiato. Irriconoscibile. C’è soltanto lei, la mia ragazza della Baraggia, ad ascoltarmi: ma come può aiutarmi a ricordare, ora che è dietro la porta di bronzo della morte? Io, che leggevo Marx e Majakovskij nella stanza fredda della Lega, oggi sono padrone del castello (in rovina) dove abitavano i miei nemici di classe. Una vittoria, no? Invece mi sbagliavo: un fantasma anch’io, in un castello in rovina.

Quando ho riletto, per farmi paura nella solitudine e, così, sentirmi un po’ vivo, quel racconto di Poe intitolato La mascherata della Morte Rossa mi son detto, con una specie di allegria triste: ecco come sono ridotto, ecco la mia fin de partie, a Beckett piacendo. Sono come il principe del racconto, che si è rifugiato in una turrita abbazia con una corte di ballerini, musici e buffoni, mettiamo i miei pensieri. E lì, nelle sale cadenti, sotto affreschi sbiaditi, chiuse tutte le porte, il principe crede di essere al sicuro dalla peste che strema la regione, mettiamo dalla follia di distruzione del mondo. Si stordisce con le feste notturne, non sa che nell’ultima stanza dell’abbazia è già in agguato come un ladro la Morte Rossa, pronta a colpire.

Da ridere: avevo pensato di ritirarmi qui a scrivere le mie memorie (per residua vanità), e chiudere così la vecchia ferita. Ma sono stato inghiottito dalla nebbia, la sola cosa che abbia ritrovato della vecchia Baraggia: il passato ormai oscuro; ed eccomi fermo in questo gioco dell’oca dei ricordi, per penitenza, senza farcela a raggiungere la casella di partenza come avevo sperato, come sperano tutti i vecchi, la cui memoria cammina all’indietro. E un giorno ho trovato scritta in vecchie carte ammuffite la fine dei de Bosis, un altro giorno mi sono trovato tra le mani una copia ingiallita del romanzo di Stocker che non avevo mai letto, appartenuta al conte padre, curiosamente postillata come un incunabolo. Ho letto le carte, sto leggendo il romanzo e così l’immaginario si mescola alla realtà: vai a distinguerli. Sono dentro alla nebbia dell’inverno, completamente; nella nebbia mi pare di vedere – o di sentire – la carrozza del conte Guido che va a Londra per incontrare Bram Stoker.

La Baraggia della rivoluzione mancata? La Transilvania di Dracula? Non scriverò più, questo è certo, le mie memorie di figlio del secolo. Sarebbero inutili. E poi sono pressoché inesistenti. Come la carrozza del conte sparita nella nebbia.