La zattera attorno al mondo
La zattera attorno al mondo
In un tempo straniato e con un percorso narrativo circolare, scorrono passato e presente, bilanci esistenziali.
In una zattera-arca di Noè, luogo di primitiva felicità edenica, preservato da disastri ambientali e degrado culturale, c’è il nettare dell’immortalità e destini che si incrociano.
La musica e i testi delle canzoni attraversano le vicende che hanno come filo conduttore l’amore. Come nel Decameron il raccontare fluisce in una cornice e come nel Decameron i ragionamenti sono sulla vita, sul dolore e sull’amore.
Lodovico Acerbis è nato ad Albino, si è laureato a Milano, vive a Bergamo e nel mondo, viaggiatore instancabile per passione e per lavoro.
L’imprenditoria e il design, unitamente alla scrittura, sono colonne portanti della sua esistenza.
Questo è il suo quarto romanzo, dopo Pierino Sgiufa, il tornitore (Ferrari 2006) e, per Manni, Butterfly. Chōcō (2007) e Quattro squinternati e una nuvola bianca (2009).
I due uomini non si conoscevano.
Non s’erano mai visti, né incontrati prima di quel giorno.
Insieme, ora stavano osservando la costruzione abbandonata, un rudere in uno stato così cadente da stringere il cuore. Difficile immaginare come fosse stata un tempo. Il tetto aveva un largo squarcio e, osservato dall’interno, il rudere sembrava ghignare come una bocca sdentata. Le crepe nelle pareti perimetrali erano tanto grosse da portare a domandarsi quanto avrebbero resistito in piedi, prima di rovinare trascinandosi dietro un intero angolo della costruzione. Un rampicante aveva soffocato quasi tutto il resto, mangiandosi porte e finestre. A cavalcioni del colmo del tetto si ergeva un campaniletto anch’esso in cattivo stato, alto sì e no un metro, e che avrebbe dovuto contenere una campana; che c’era, infatti, a ben osservare, anche se coperta da una patina scura che la confondeva col legno e le dava un’apparenza avvilita, inadatta a qualunque suono.
Eppure quella campana si mosse.
A fatica, vincendo l’onere del suo peso e la ruggine dei perni di rotazione, oscillò su e giù emettendo alcuni colpi secchi come se fosse assalita da rauchi e scarni scoppi di tosse.
Dallo stentato richiamo della campana, da quella casa cadente, da quel rudere senza vita, i due sconosciuti furono attratti come da una potente forza primitiva.
Un poco malinconica.
E un poco eccitante.
E, senza dirselo, avevano pensato che quel disfacimento sgangherato era in fondo il loro ritratto. E avevano concluso, sempre senza dirselo, che sarebbe stato più semplice porre mano al rifacimento di una casa che di tutta una vita.
«Converrà darsi da fare!» disse il primo, quello con le mani in tasca e il cappello floscio. «Secondo Belzebù, l’attesa dà tempo al diavolo!»
«Il tempo passa anche per le cose inanimate che ci circondano. Ci si deve rassegnare!» filosofò il secondo, vestito quasi da città.
«Mai e poi mai!» protestò l’uomo col cappello. «Come disse il celebre Kolovski: “Non lasciatevi abbattere da un filo d’erba, dall’ombra delle nuvole sul terreno, o da una cavalletta che salta sopra la vostra spalla”.»
Attese che la sapienza della citazione calasse sul mondo, e poi continuò, sbrigativo:
«Dai, diamoci una mano. Le chiacchiere servono a poco, in certi casi.»