Secondo classificato al Premio Castiglioncello 2007
Incipit
All’Ade
E quando al mare fummo giunti, la nave per prima cosa spingevamo nel mare divino, e albero e vele alzavamo sulla nave nera […] Circe dai bei capelli, la dea che parla con voce umana, ci mandava compagno un vento propizio, un vento che gonfia le vele […] Per un giorno intero, a vele spiegate, correvamo sul mare. Tramontò il sole, si velarono d’ombra le strade, e l’ombra giungeva ai confini di Oceano dalle acque profonde. Là c’è il popolo e la città dei Cimmeri, avvolti di nuvole e nebbie; il Sole fulgente non li illumina mai coi suoi raggi né quando sale verso il cielo stellato né quando dal cielo ridiscende verso la terra: una cupa notte incombe su quella gente infelice.
Odisseo raggiunse la soglia dell’Ade: Vi dimorano, privi della parola, i fantasmi degli uomini morti. Subito fece un sacrificio di animali e quindi sgozzò un ariete nero appositamente per Tiresia affinché gli predicesse il futuro. Fuori dall’Erebo si radunarono le anime dei trapassati, si radunarono intorno alla fossa, da ogni parte, con grida acute: e un livido terrore lo colse. Dalla torma si levava uno stridio come di uccelli dappertutto fuggenti. Non potevano articolare parola se prima non la nutrivano col sangue delle bestie sacrificate, ma Odisseo stava in guardia con la spada sguainata. Non permetteva che le ombre vane dei morti si accostassero al sangue: voleva anzitutto interrogare Tiresia. Per prima, tuttavia, gli si accostò la madre Anticlea e gli fece intendere con le arse labbra spalancate che fremeva di dirgli parole antiche e nuovissime. Odisseo avrebbe dato qualsiasi cosa per risentire la sua voce e soffrì nel proibirle di bere quel sangue prima di avere ascoltato Tiresia. Lui che amava narrare tutte le svolte del suo destino già compiuto, ora, in questo regno dei morti, provava l’irresistibile ansia del futuro. Solo dopo il racconto dell’avvenire, avrebbe potuto prestare orecchio alle storie di quei fantasmi noti e ignoti.
Michele Zandonà incontrò, invece, i suoi morti un pomeriggio limpido d’inverno in una radura circolare tra i gialli delle poche foglie rimaste nell’aria immobile e nel silenzio, mentre il cielo pendeva come una cupola di vetro sul cerchio dell’orizzonte. La terra girava da miliardi di anni senza farlo vedere, senza strattoni improvvisi a rovesciare palazzi case e strade, ma in quello spazio fermo sembrò arrestarsi di colpo. Il tempo girò su se stesso e una folla di ombre si rovesciò dal cielo sospeso reclamando ricordi. Loro non cercavano sangue per potersi raccontare. Anche lui, dopo il primo sgomento, ebbe innanzitutto l’impulso di interrogarle sul suo futuro, ma vide che fluttuavano in immagini passate a cui era lui a dover dare voce per placarle.
Per prima, gli si fece davanti sua madre, già malata al battesimo di sua figlia, con la nipotina in braccio, un batuffolo di vita tenuto come un pacco di cenci dalla sua figura dilavata e devastata dalla morte in agguato, gli occhi persi in un punto lontano e invisibile, il tenuissimo amaro sorriso di chi intende fare un estremo atto di presenza, restare ancorata al mondo per i suoi cari che le si stringono intorno con la goffaggine di invitati dell’ultima ora. E lo sfondo sul quale appariva non era un deserto, un’immagine di guerra, la devastazione di un’epidemia o di una carestia, non era uno scempio totale del mondo, ma erano i familiari nella loro quotidianità, un cantuccio di chiesa, e lei lì, smemorata, sul punto di dissolversi e far dilagare tutt’intorno l’irreparabile. Si era lasciata andare, aveva mollato la presa, la sua mente galleggiava inerte sull’oceano di tutte le sue esperienze e memorie passate, e affondava, semplicemente scompariva, fulminata da una scarica eterna e impietosa, che le cancellava le consuete associazioni nella mente e gran parte dei suoi ricordi: una scarica terribile perché lenta, carnivora, a soffocarle le radici della vita, screziarne il tronco, sbiancare tutte le sue foglie. Come erano inondati i suoi capelli da una stupefacente bianca precoce vecchiaia! E poi passava nell’altra dimensione, immobile alla fine davanti al suo pianto. Si chinava per abbracciarla e, con suo grande spavento, lei emetteva l’ultimo fiato che il corpo inerte ancora tratteneva, come un soffio sulla sua ultima candela o un afono saluto. Da dove?
Il romanzo si è classificato secondo al Premio Castiglioncello 2007, con la seguente motivazione:
Romanzo - ma anche diario intimo, trattato filosofico, esercizio ermeneutico, taccuino di viaggio. Mare scritto è un testo complesso, stratificato, in cui l’elemento dell’acqua, oltre ad essere chiave simbolica, oggetto filologico, scenario narrativo, diventa paradigma di una scrittura mobile: a volte calma, altre agitata, sempre liquida e inafferrabile.
Ma il vero protagonista del libro di Serpieri - ancora prima del mare, o del personaggio di Michele Zandonà, che lo attraversa e cuce i vari quadri - è il tempo. O, più precisamente, il tempo in cui le cose, colte nel loro divenire, si formano, si cristallizzano e, in qualche modo (nonostante l’apparente linearità del panta rei, del tutto scorre) iniziano a guardarsi indietro, ad alimentare la memoria, a definire un circolo tanto più vizioso quanto più la virtù del ricordo si fa rimpianto.
E' uno straordinario romanzo di formazione, Mare scritto, che per quasi cento pagine accompagna il personaggio di Michele nelle tappe iniziatiche dell’infanzia e della giovinezza: l’attaccamento morboso del neonato alla madre, il rapporto edipico col padre, la tenerezza verso il fratellino Diego, la scoperta del proprio corpo e poi di quello femminile.
Ma quando, nella più ortodossa tradizione del bildungsroman, ci aspetteremmo la sua maturazione, il colpo d’ala verso la vita adulta, ecco che il mondo di Michele Zandonà prima declina verso un malinconico crepuscolo e poi tramonta del tutto: memorabile e struggente il nodo nostalgico che accompagna il suo primo viaggio all’estero. Nell’addio agli altri studenti, nel malinconico e perfino imbarazzante tentativo, due anni dopo, di ritrovare la ragazza norvegese amata in quei giorni, c’è già un senso di cose finite, appena iniziate e già irrimediabilmente perdute.
Mare scritto, a questo punto, termina di essere narrazione e diventa frammento, ricerca, ossessione, viaggio a ritroso. Come se esistesse un tempo per vivere, e un altro in cui, cominciando a ricordare, si comincia anche a morire, l’autore distoglie la sua scrittura dalle azioni del proprio personaggio (da ciò che egli fa), e gli si mette a fianco per analizzare ciò che è - ciò che lo ha portato a fissarsi in quella forma. C`e` posto, in questa analisi, per la psicologia, per la filosofia, perfino per la cabala. Ma c`e`, soprattutto, un senso del trascendente, un ritorno all’amniotico mare delle nostre origini, un abbandono a un’energia più grande (sia essa dio o destino) che rendono il romanzo di Serpieri un libro mistico e nello stesso tempo carnale; disperato e al tempo stesso sorridente; eruditissimo e nello stesso tempo naif.
Altra onda nelle correnti del tempo, di Silvia Bigliazzi
Mare Scritto di Alessandro Serpieri è un testo per molti aspetti assai singolare, che dispiega nella struttura e nei temi una vena narrativa originale e variegata, ricca di modulazioni polifoniche e timbriche, che aprono un intero ventaglio di voci e di toni: intimi, mitici, realistici, impressionistici, visionari. Pur dichiarando nel sottotitolo la sua appartenenza al genere romanzesco, questo romanzo è sui generis, strutturandosi in una sequenza di ventidue capitoli, divisi in tre parti (Crescendo, Cercando, Approdi e ritorni), più un’ultima brevissima quarta parte-capitolo (Ouverture). Ciascun capitolo reca un titolo che ne evidenzia la sostanziale autonomia, pur nel quadro di una narrazione fortemente coesa intorno alla Bildung del protagonista. È infatti questa la storia di Michele Zandonà, un personaggio che, nel sintetizzare simbolicamente l’intero alfabeto nella Z-a del proprio cognome, è sia “chiunque”, nel senso di Everyman, ogni uomo, sia individuo unico, la cui ricca esistenza si dispiega in lacerti memoriali, presentati perlopiù da un narratore esterno, che vanno dalla infanzia negli anni della seconda guerra mondiale, a un’adolescenza fatta di scoperte, curiosità, paure e incontri: con gli altri, e con l’altro – l’altro sesso –, ma anche e soprattutto con un se stesso che sperimenta lo scacco del divenire nella metamorfosi dell’essere: scacco che apre al dubbio ontologico della instabilità (e quindi del non-essere). Dove si consiste, cosa si è, chi si è, e perché l’ansia della conoscenza, per sapere che cosa, e perché dover scegliere e quindi assumersi la responsabilità?
Queste alcune delle domande centrali del romanzo, che pone in un rapporto di continua dialettica l’interrogativo sull’essere e sulla scelta (cosa o chi scegliere di essere?) e il tema della scrittura come antidoto alla perdita della memoria, e quindi del sé, ma anche come creazione di una (altra) vita possibile. Tracce sono infatti le parole che il narratore incide nei “bivi del tempo”, in quegli snodi, reali e/o immaginari, nei quali le strade della vita si diramano e fanno essere e consistere per sempre in un modo anziché in un altro.
Quella del tempo è appunto una, o forse, la tematica centrale di Mare scritto, che accompagna un canto di gioia innalzato alla vita con il basso continuo di un canto funebre per quella carne che ha in sé inesorabilmente la morte. La scrittura si volge proprio a sfidare quella morte, in un racconto di memorie che congiunge passato e futuro in un paradossale passato-futuribile, che proietta in avanti la storia oltre il preludio di una vita intera: quella di Michele Zandonà. Tornerò su questo più avanti.
Ma intanto vale la pena osservare che la tensione fra inizio e fine, passato e futuro, essere e non essere, attuale e possibile, vero e finto, costituisce una delle cifre principali di questo romanzo, che, come il nome del protagonista che in sé riassume l’intero alfabeto, si dà come simbolica sintesi della dicibilità dell’universo, e, come quel cognome inverte ultimo e primo, Z e A, anch’esso trova il suo paradigma strutturante nella logica del rovesciamento. Paradigma che ne modella l’architettura, aprendo il testo su un episodio colto in medias res, la discesa agli inferi di un Michele-Ulisse, ormai uomo maturo, che miticamente incontra i suoi morti (la madre, i fratelli, la nonna), e chiudendolo invece sul tempo capovolto – evocato nei miti di Abramo novello padre e di Esone ringiovanito da Medea –, e poi sulla visionaria apertura di Michele alla rinascita dell’universo e a un proprio futuro di eterna giovinezza.
Non abbiamo il tempo di addentrarci nelle pieghe dell’intreccio, né nel dichiarato gioco intertestuale che si modula nel controcanto mitico di impronta soprattutto omerica (l’ Odissea) e ovidiana (Le metamorfosi). Questo piacere lo lascerei ai lettori. Piuttosto, vorrei soffermarmi sul significato del titolo e sui due campi semantici che esso evoca, perché ne rappresentano il centro metaforico e tematico: il mare e la scrittura.
Il titolo, dunque, Mare scritto, una scelta che si impernia sulla tautologia (il romanzo è scrittura) e sull’ambiguità. Due sono infatti i possibili significati, a seconda che si legga “mare” come quella materia in cui – impresa impossibile! – è incisa la parola; oppure come l’oggetto di cui parla il romanzo. Nel primo caso si allude al paradosso della inscrizione della traccia linguistica, permanente, nella fluidità del liquido marino, che per natura è metamorfico, mobile, sfuggente e continuamente mutante. Scrivere nel mare è un po’ come imbrigliare Proteo – figura che viene a un certo punto, e non a caso, citata: è il capitolo “Mare” e il narratore ricorda di come il “Vecchio verace immortale che del mare conosce tutti gli abissi” fosse stato catturato da Menelao, con l’aiuto di Eidotea, e interrogato sul prossimo futuro dell’eroe spartano. La risposta stava lì, appunto, scritta negli abissi, e il tempo era lì, anch’esso inciso nelle profondità del mare: “Scritto negli abissi” (p. 137).
Nel secondo caso, scrivere del mare significa offrirne infinite variazioni: intertestuali, come nelle citazioni omeriche che lo declinano in multiformi varianti, rendendolo bellissimo, divino, color vino, bianco, viola, livido, nebbioso, immenso, pescoso, ricco di abissi, largo, ondoso, infinito, schiumoso, instancabile, ma anche – come il tempo, che si spazializza nella metafora dei bivi – ampie vie (pp. 128-129). Oppure variazioni dettate dallo sguardo del protagonista, il quale, anche quando ripropone topoi tipici della cultura occidentale, ne dà sempre una versione molto originale. Vediamone qualche esempio.
Per primo il mare lo si incontra come metafora del tempo e della memoria. L’incontro con lo spettro della madre, che avviene nel primo capitolo nella mitica discesa all’Ade appena ricordata, drammatizza un lacerto memoriale di lei morente che galleggia nel tempo-non-tempo della sospensione fra i vivi e i morti, metafora marina, questa, volta a evocare il senso di una mente perduta nell’assenza del pensiero; e per continuare sulla stessa linea metaforica, segno della prossima fine della donna è che il suo capo sia già inondato da una troppo precoce bianchezza:
Si era lasciata andare, aveva mollato la presa, la sua mente galleggiava inerte sull’oceano di tutte le sue esperienze e memorie passate, e affondava, semplicemente scompariva, fulminata da una scarica eterna e impietosa, che le cancellava le consuete associazioni nella mente e gran parte dei suoi ricordi: una scarica terribile perché lenta, carnivora, a soffocarle le radici della vita, screziarne il tronco, sbiancare tutte le foglie. Come erano inondati i suoi capelli da una stupefacente bianca precoce vecchiaia! (p. 9)
Ma il tempo è anche quell’onda del fiume Oceano sul quale Ulisse si avventura per sfuggire alla morte che gli darebbe la Gorgone, e sul quale, per implicita allusione, si avventura Michele per sfuggire all’attrazione dei suoi morti, che, come anche altri relitti di ricordi (p. 132), appartengono a un mare che dilaga (p. 58); e come il tempo-mare, anche la “vita dilaga” (p. 42) in un continuo divenire delle forme:
Tutte le cose sono e non sono nell’eterno cambiamento, e se non sono l’essere non è; ma attento, il non-essere è nell’essere e questo è il divenire, quindi tu sei e sarai sempre quello che sei, ma l’essere in te diventerà quello che non sei perché se il tuo essere fosse continuamente lo stesso non ti sarebbe possibile la conoscenza. Già, mi parli di conoscenza, ma le tue parole non mi fanno capire granché. E allora non ti resta che sciacquarti l’anima: sveglio di notte è il momento propizio, quando vuoi vedere lucido e duro il perno del tempo su cui l’anima si attorciglia, e si lava, e si sporca. (p. 137).
Multiforme miscela di essere e non-essere, o non essere più per essere in breve di nuovo altra forma, altra onda nelle correnti del tempo: questo è senso del dilagare della vita – e del tempo. Mare attraversato dal navigante avventuroso, Odisseo, che abbandona i suoi cari e, a differenza di Michele, non si chiede “fino a che punto lo avesse voluto lui stesso quel destino” (pp. 10-11) di viaggi per mari. Che seguono rotte normali fino a che non si intravede l’ultima mèta: quella scorta dagli occhi immobili della sorella morente, severa e fissa sul vuoto di un incipiente ultimo non-essere, sospesa sull’abisso, ancora marino, della morte:
Eppure, chissà, io cercavo di incontrare i tuoi occhi immobili, quel tuo sguardo fisso e severo, quasi di rimprovero ai viventi di navigare su rotte normali e senza scopo, mentre la tua mente, dietro quegli occhi, aveva avvistato l’ultima vera mèta, paurosa ma inevitabile, paurosa ma miracolosa, da raggiungere con animo saldo. (pp. 13-14)
E vediamo ancora il paradigma del rovesciamento nella sintesi speculare dell’inizio e della fine del primo capitolo: per primo, l’annuncio della discesa agli inferi nella circolarità di uno spazio silvestre (l’apparizione dei morti nel cerchio di una radura) e nella rotazione del tempo (“Il tempo girò su se stesso e una folla di ombre si rovesciò dal cielo sospeso reclamando ricordi”, p. 8). Per seconda, specularmente, la conclusione dell’episodio su una risalita costruita sull’ascesa di Michele mentre i suoi spettri precipitano “in un profondissimo pozzo”:
Dicendo addio, avevano girato via con vele nere, al centro di un mare di piombo, nella luce verticale dell’assenza. Dall’altra parte del tempo. (p. 17)
Il mare dell’assenza, schiacciato dalla verticalità del non-essere, sta dalla parte di là: ed è dalla parte di là, “dentro un vasto bacino di voci bisbiglianti” (p. 19), che si profila la prima scelta di fronte al precipizio dell’essere, e nell’essere, uguale e contrario al precipizio in cui si erano inabissati i suoi morti: la nascita, cui è dedicato il brevissimo, secondo capitolo, che, significativamente, segue proprio la discesa all’Ade. Nascere è scegliere di cadere “in un imbuto di stelle” nell’attrazione di una “terra bianco-azzurra lontana”, “affogando nell’aria che cominciava a respirare” (p. 19). La morte per aria, e non per acqua, ma veicolata con la metafora di una fine per annegamento, segnala l’inversione avvenuta nei verbi, che sono modi di esistere, e dunque di vivere. Nascere è cominciare a morire, conoscere il divenire delle forme e l’illusione dell’eternità nella compresenza e nell’inganno degli opposti, del vero e del falso, della vita e della morte:
Ebbe l’incubo del trapasso alla vita e sentì che stava cominciando a morire. Allora gli esplose in gola la gioia dolorosa di un corpo già trafitto dall’inganno. (p. 19)
Questo è il paradigma marino del rovesciamento tra inizio e fine di una narrazione che, pur seguendo sequenzialmente la linea della vita, opera un significativo capovolgimento della diacronia, evidente soprattutto nella terza parte (Approdi e ritorni), e poi, come si diceva, nell’ultima, brevissima Ouverture. Nel “Lumaio e la Ninfa”, primo capitolo di Approdi e Ritorni, Michele, ormai adulto, è attratto dal non-tempo di una alterità affettiva tangenziale alla sua linea di vita – la famiglia, l’amata moglie – e in questo cantuccio di non-tempo incontra lo sguardo di una giovane che come lui si affaccia alla finestra del tempo e lo attraversa. E qui la scrittura accoglie i toni e i ritmi visionari di tagli descrittivo-narrativi che segnalano l’atemporalità del desiderio, e dei suoi metamorfici flussi:
Le tese la mano gettandosi nel lampo lento e quieto che si espandeva nelle iridi chiare riconoscendolo. E allora la scena cambiò. Si ritrovarono nel taglio di sole in un cortile, tra automobili in parcheggio, il verde ammassato su una scarpata, un cespuglio di gigli quasi in fiore, e un vento che animava fronde capelli e vestiti segnalando che il tempo, come lo spazio, non poteva essere sospeso. In alto, la sua faccia gli apparve levigata come un ciottolo lavorato da miliardi di onde o dalla profonda corrente di un immenso fiume africano. Poi era sera e dentro i suoi segreti lei sedeva composta, le gambe leggermente accavallate, gettando ogni tanto uno sguardo veloce di fianco, e lì c’era lui, e per lui si liberò i capelli raccolti a crocchia con tre o quattro fermagli circolari. Si riversarono tutt’intorno con l’impeto di una massa d’acqua in una cascata equatoriale. Forza originaria in ogni gambo, verde serpente, verde-giungla, e negli orecchi fame rimbombante di animali.
Il lumaio sogghignava in un angolo. (p. 196)
Il volto levigato dalle onde e i capelli come una vivificante cascata equatoriale: il mare dà vita, è vita, ed è il luogo della fuga nel desiderio e della metamorfosi marina su cui si chiude questa terza parte, dove i due amanti, fuori dal tempo umano, respirano il liquido che fa loro essere finalmente infiniti, creazione primigenia e originaria nel ventre del mare-madre.
Ed è questa un’altra declinazione del mare di grande pregnanza: la madre. “Sua madre l’aveva poi amata moltissimo”, dice il narratore nel terzo capitolo, “Tracce”, “Era come il mare lieve e verde o azzurro dell’infanzia” (p. 22). Con lei “fin da piccolissimo, aveva imparato che il mare ha tante voci, ma non le usa sempre in maniera polifonica. Si acquieta, si infuria, passa di traverso, tace lontano” (p. 25). Ed è a questo punto che un altro dato stilistico, oltre a quello visionario prima ricordato, segnala l’affiorare dell’emozione nel ricordo, che viene cifrata nell’andamento ritmico del periodo, nel suo snodarsi per aggiunzione ed enumerazione, per ripetizione fonosimbolica, e, ancora, per allitterazione: sulla liquida o la sibilante, a mimare la liquidità del mare, oppure sull’occlusiva bilabiale /m/ a costruire sottili architetture di senso sul paradigma madre-mare: (“il mare mormorante, la mamma vicina e subito abbandonata […]) (p. 22):
Mare fresco, mare caldo, mare salato negli spruzzi che certamente erano saliti fino alle sue labbra facendogli assaporare un altro liquido, più antico, più universale e non meno vitale di quel latte che gli giungeva da diverse frastornanti fonti. Forse il mare fu per lui la vita stessa, mare che non sapeva che era mare, inebriante, vicino lontano, riflessi di sole nell’acqua ai suoi minuscoli piedi. Poi ci fu il mare di altre estati, mare nominato, bruno, sotto costa, attraversato da riflessi d’alghe. Alle otto massimo le nove di mattina rideva piatto, orlato di minuscole schiume intorno ai bordi frastagliati degli scogli bassi e distesi, con il sole allegro e fresco a respirare pochi palmi sopra lì orizzonte nel tenue blu di brevi brezze provenienti da oriente. (p. 22)
Michele impara da bambino a “sciaguattare nel mare profondo” (p. 29) e sempre da bambino impara a scrivere per ricordare, ma anche per allontanare il ricordo – e la colpa, “l’oscura incomprensibile colpa” (p. 29), sempre incomprensibile perché colpa antica di esistere e di poter non-essere: qualcosa o qualcuno, oppure semplicemente non essere più. Perché la morte, era in lui da sempre come trafittura della carne già alla nascita: “E in quella lunga guerra cercò più volte, nella veglia o nel sogno, di allontanare la morte che poteva stare lì, da qualche parte, in qualche tempo, ad aspettarlo, silenziosa e terribile” (p. 33). E la parola era anch’essa in lui, parola per la morte e contro la morte, e sempre insufficiente alla vita e alla morte. Con una straordinaria sensibilità per l’imponderabilità, e l’indicibilità, della vita e della morte, Michele avverte l’incolmabile distanza fra la simbolizzazione del sentire, e del soffrire, nella parola, e il dolore della carne, la sua fine che non può che essere silenziosa:
Lui aveva rabbrividito nel tracciare qualche parola su una pagina bianca, una lapide sottile, qualche parola che potesse accompagnarla [la sorella morente]: un modo vano, assurdo avrebbe detto lei, ma per lui forse una preghiera, l’unico addio che sapesse darle nel silenzio che scendeva sui suoi balbettii. Silenzio, smetti, le parole insultano la vita e la morte. (p. 12)
Michele apprende a vivere nel tempo, e nella memoria, e a scrivere il tempo, e nel tempo. Impara per trattenere il passato e rovesciarlo nel gioco continuo di passati-futuri inscritti in tracce di vita, legati “in un abbraccio di cui lui, e solo lui, avrebbe capito il senso, il messaggio” (p. 27). E solo nel non-tempo del sogno metamorfico del suo finale amore marino (è il penultimo capitolo) le tracce entrano nell’eternità di un infinito divenire di forme che si traduce anch’esso in scrittura, ma paradossalmente eterna nel suo continuo divenire, svanire e rinascere: sono i messaggi composti dai due amanti sulla sabbia, sciacquati via dal mare del tempo, ma sempre riscritti. Così, le tracce di vita che nell’infanzia di Michele consistevano in messaggi solitari, e di solitudine, si aprono infine al dialogo a due, a un metamorfico sogno di mare, e di amore, dilavato dalle onde, ma sempre lì riscritto:
E tracciavano, insieme, [con la loro coda di delfini] segni, disegni, delle loro scoperte sopra e sotto la superficie del mare. La marea cancellava ben presto, ogni volta, la loro testimonianza felice. Che nessuno sarebbe mai venuto a decifrare, ma che era forse l’unica risposta sensata che fosse mai partita dalla terra incontro ai brividi irrisolti delle stelle. (p. 210)
Con questo senso del capovolgimento del tempo nel mare del desiderio il romanzo si prepara così a chiudersi per riaprirsi sull’overture a un ricominciamento. Quanto narrato funge a questo punto da preludio di una vita che si apre, visionariamente, al ruotare della terra in un’altra galassia, “tra ghirlande di stelle stupefatte, inseguendo a spirale uccelli lontani, sbucati in voli azzurri dai pianeti di Andromeda” (p. 213). E allora torna il senso del mare-madre, madre-vita e respiro, non mare-morte e abisso del tempo che sta dall’altra parte, mare livido dell’assenza, come in “All’Ade”, o mare nero nel quale naufraga rotolando la massa umana di disperati clandestini su barconi disfatti dalla tempesta, “come un unico informe organismo” sciolto come “una gelatina impazzita” (p. 188) (questa l’immagine di putrida liquefazione in “Bombe sesso e dissolvenza”). Il mare che torna a essere inciso nella scrittura di Ouverture è quello del respiro prenatale nel liquido materno e nel liquido del desiderio infinito:
E avrebbe imparato il respiro del mare aperto dal vento e il respiro dentro il mare o oltre il vento, sospendendo su ignote correnti gli stati passati presenti e futuri della mente. (p 213)
La discesa agli Inferi e la rotazione del tempo verso l’abisso del non-tempo si capovolgono così infine nel sogno dell’eterna circolarità e nella cifra del “sempre” di fronte alla visione di una tenera luna nascente, cerchio annunciato, ma non ancora maturo, dimezzato tondo-zero di vergine giovinezza che si appresta a essere il tutto-già-nulla della sua tonda pienezza, in un precoce tramonto d’inverno:
Lui doveva solo fare in modo che quella sua improvvisa idea ridente, e già sul punto di tradursi in parole immagini suoni odori contatti, restasse sospesa e non conoscesse il suo seguito maturo. Solo così avrebbe potuto rispondere alla tenera luna con un sogno dal lieve arco giovane sempre. (p. 213)