Racconti in disordine
Racconti in disordine
Nel trattare i personaggi Minonne si rivela maestro di psicologia. Ognuno di essi ha una personalità ben distinta della quale l’autore esibisce con delicata sensibilità luci e ombre, vittorie e delusioni, desideri e incubi: insomma tutto quel groviglio di sentimenti, di pensieri, di pulsioni che rivelano l’intimità dei personaggi e spesso li lasciano indifesi di fronte alla irrefrenabile avanzata della vita.
INCIPIT
Il paese Tranquillo
Era più simile all’Eden che all’Eldorado il paese di nome Tranquillo. Si estendeva nel fondo di una valle molto amena. Chiunque avesse osservato il panorama, per quel brevissimo tempo avrebbe visto come sarebbe il mondo intero se l’uomo smettesse di credersi Dio. Gli alti faggi e le querce superbe, immobili sulle alture intorno, sembravano tenersi a catena a difesa del paese in basso. I vasti tappeti variopinti che coprivano i leggeri declivi altro non apparivano che l’estensione naturale degli interni delle case semplici e funzionali, ed erano ammobiliati di panche di legno e di pietra, di altalene e di minuscole giostre. Come il saluto di un passante cortese suonava la voce del ruscello che rasentava il fianco occidentale di Tranquillo. Le case attorniavano la piazza come fanciulli in ascolto di storie. Le facciate, biancheggianti di calce, si offrivano venate di edera e le finestre soverchiate da rampicanti. Il sole e la pioggia si erano divertiti a disegnare scherzi pittoreschi sulla loro carnagione.
Al centro della piazza si ergeva suggestivo, come ogni cosa nata da un mistero, un albero. La sua impalcatura era stilizzata, essenziale, simile a un corpo umano che si è liberato, lungo il percorso della vita, di tutti gli orpelli, uno per volta. Si staccavano dal tronco imponente e rugoso sette rami nudi di foglie e di germogli. Si potevano credere morti; ma ogni ramo aveva un proprio colore, incomparabile, che, però, scorreva traslucido sotto la scorza: sette colori, quelli dell’arcobaleno.
Quando il sole volgeva al tramonto, un vecchio sdentato sedeva in un incavo delle contorte radici affioranti, il suo trono. Gli si attribuivano cento anni. Una necessità interiore lo spingeva verso quell’albero. Aiutato da alcuni che gli si accalcavano intorno per ascoltarlo, sedeva sull’intrico legnoso come su una mano tanto grande da sorreggere tutto il paese. Gli mettevano il mantello sulle spalle e lo circondavano stretti per rimanere nel raggio della sua magia. Attaccava con la storia di sempre, lo sguardo lontano, alle cime intorno sulle quali il tramonto prendeva fuoco. Nella sua lingua parlava del passato ben preciso e scolpito nella memoria. Taceva. Tendeva l’orecchio quasi a sentirne voce e respiro, il rumore della sua vita vissuta.
«Era così nel Paradiso terrestre: Adamo lavorava ma non sentiva la fatica e non sudava. Come noi, ora…» E dopo una pausa profonda, come un profeta aggiunse, «finora…!»
I presenti erano prigionieri delle sue parole che attraversavano la loro carne e il loro spirito. Tendeva l’orecchio per ascoltare l’albero, cantore di storie antiche e lui, il vecchio, le ripeteva pari pari, molte volte uguali, qualche volta diverse per una notizia in più spigolata nel fondo della memoria vagabonda, una nascita o una morte, una promessa mantenuta, una profezia avveratasi, un prodigio… Per questo era così forte la fedeltà degli abitanti all’albero e al suo nume tutelare.