Un anno a Soyumba

Un anno a Soyumba

copertina
anno
2008
Collana
Categoria
pagine
32
isbn
978-88-6266-006-8
4,75 €
Titolo
Un anno a Soyumba
Prezzo
5,00 €
ISBN
978-88-6266-006-8
Sto rinviando un viaggio pur fortemente desiderato. Forse perché l’ala di un dubbio mi sfiora spesso: sarà solo un viaggio oppure un vero addio al mio paese, alla mia lingua, ai miei affetti?

Nell’isola di Koryambi, a nord del Tropico del Capricorno, un antropologo descrive il popolo dei Soyumba. Per più di un anno annota su un taccuino linguaggi, credenze e riti, usi e costumi, architetture ed economia, storia e guerre.
Ma è solo un racconto antropologico? Con Antonio Prete facciamo un tuffo in una civiltà diversa, insieme onirica e utopica: da quella lontananza sono i nostri costumi a mostrare il loro limite, la loro irragionevolezza.

Progetto grafico di Roberto Gorla e Michela Barbiero

INCIPIT
 
Ho vissuto per più di un anno nell’isola di Koriyambi, ma gran parte del tempo l’ho trascorso nella capitale, la città di Soyumba.
Le osservazioni che seguono non sono i rilievi di un antropologo e neppure gli appunti ordinati di un viaggiatore curioso, ma soltanto le impressioni che nelle sere piovose annotavo ogni tanto sul taccuino. Quando ero nei villaggi, scrivevo al lume fioco della lampada, in baracche di legno a forma di piccola piramide, che chiamano ha-haué. Quand’ero in città, scrivevo, sempre di sera, in una confortevole casetta di pietra, illuminata da una luce soffusa.
Il ruolo di informatori lo hanno avuto di volta in volta le persone che incontravo al mercato o nella Casa Celeste, che è come la nostra chiesa, oppure nella Volta Accogliente, che è l’edificio della città dove si celebrano la maggior parte dei riti. Casa Celeste e Volta Accogliente sono la traduzione, certo approssimativa, di Haué-mbie e di Aan-melapye.
L’isola si trova a sud della linea equatoriale, tra il ventiduesimo parallelo e il Tropico del Capricorno e dista dalla costa occidentale dell’Africa circa cento leghe. La savana del nord lascia il campo, già sotto la città di Soyumba, a un deserto che si spalanca tra dune rosse, piane dalla sabbia fine e giallorosa, tratturi per carovane. Il deserto poi degrada dolcemente verso la catena di basse scogliere che s’affaccia sul mare. Nelle terre che si aprono tra il nord della capitale e la linea della savana si coltiva cotone, ma anche caffè. Qualche bananeto si può trovare tra i villaggi che scendono verso la costa sud orientale. Fino alle soglie del Novecento era ancora sfruttata una miniera di diamanti: si trovava a sud ovest dell’isola, e tuttora si possono vedere sul luogo trivelle arrugginite, rovine di vecchie costruzioni e cunicoli, ora rifugio delle uerené, una sorta di lepri del deserto, dal mantello fulvo, vigilissime e veloci, che usano rubare le scorte di cibo dei viaggiatori, quando questi sono costretti a soste impreviste a causa di improvvise tempeste di vento.
Altri animali abitano l’isola, come gatti selvatici, diverse specie di scimmie, il leone della savana, un felino detto pantera viola, e il mikuyì, cane che somiglia al nostro pastore tedesco, senonché è indolente, trascorre il più gran tempo in uno stato che potrebbe dirsi di letargo, si nutre solo di pesci d’acqua dolce, e dinanzi alle capanne dei villaggi, invece di fare la guardia, va incontro agli sconosciuti facendo grandi feste e balzando talvolta, con tutto il suo peso, in collo al visitatore, tra guaiti di benvenuto e slinguate affettuose. Molti uccelli migratori scelgono l’isola per le loro soste, soprattutto a primavera, quando le balze di sabbia si velano di chiazze erbose gialle e verdi che, se osservate da vicino, si rivelano essere bassi cespugli punteggiati da bacche blu. Un costume diffuso sia nei villaggi sia nella città è addomesticare specie di uccelli le più diverse. Così non è infrequente, entrando in una capanna o in una casa, essere accolti da trilli e cinguettii che paiono certo festosi, ma forse sono solo di richiamo o di malinconia. In tutta l’isola è poco praticata la caccia, mentre è assai diffusa la pesca, almeno lungo le scogliere meno impervie. Nei giorni di mare calmo piroghe veloci si allontanano dalla riva: l’equipaggio è composto dal vogatore e da un suo compagno che chiamano wehalini, cioè amico dei pesci. Costui, a un miglio circa dalla costa, si tuffa e cerca di scorgere, scendendo in apnea, qualche grosso pesce, del quale, una volta individuatolo, prende a imitare guizzo e movimenti. Risale in superficie e ridiscende più volte finché non accade che il pesce entri in confidenza col nuotatore e voglia giocare con lui. In quel caso l’amico dei pesci non risale più sulla piroga, ma tra inseguimenti e abili mosse da gioco, conduce il pesce fin verso la riva: qui esso è accerchiato da altri pescatori e catturato vivo. Per questa particolare forma di pesca la popolazione dell’isola è chiamata in tutto l’arcipelago wehalingalì, che vuol dire ingannatori di pesci.
 

Chicchi

24-04-2008
Gazzetta del Mezzogiorno