Il bambino perfetto

Il bambino perfetto

copertina
anno
2008
Collana
Categoria
pagine
80
isbn
978-88-6266-038-9
10,45 €
Titolo
Il bambino perfetto
Prezzo
11,00 €
ISBN
978-88-6266-038-9
nota
Postfazione di Antonio Prete

In questo libro il poetico è inserzione accurata, insistente, della solitudine nel tumulto di voci, dell’ombra nella luce del giorno, del vuoto nella lingua degli oggetti. Una presenza che però non si svuota mai, non si smarrisce nel nulla, perché nel sapere di sé, e degli altri, c’è una forte presenza dei corpi: il lavoro, le mani, la fatica sono lingua e vita, desiderio e ricerca.

“Cammino su ciò che so di me”: il passaggio non è verso la smemoratezza, ma verso un lento scrutare il mondo di ogni giorno per cogliere i segni di un altro cammino possibile.

Antonio Prete

 

 

Guido Monti alla presentazione alla Libreria Melbookstore di Bologna, 6 maggio 2009

 

Diceva Novalis “la poesia è il reale, il reale veramente assoluto”.

Cioè quel reale, che dal profondo della realtà del mondo trova la voce giusta per enunciarsi.

Come non vedere in tutta l’opera di Sissa e nell’ultima in particolare, questa parola che fruga appunto nelle accensioni del reale, nelle sue stratificazioni temporali per restituircene una limpida visionarietà, che non è  distorsione ma appunto sua estrema interpretazione, decifrazione.

Ecco quindi l’istanza di eguaglianza sociale, che è poi la più profonda idea di giustizia sociale essere il retropensiero, il lume(cifra) del dire poetico di Sissa, capace altresì di cogliere i tratti a volte fumosi, a volte nitidi di una interiorità-intimità problematica, che sembra consumare il suo ultimo grido dentro la città-società meccanizzata ma che invece da questo suo apparente dissiparsi, trova forza per raccogliersi nel nocciolo della fanciullezza, della sua istanza mitica e non per contemplarla ma per cercare in essa la via che verrà, che dovrà venire.



Il poeta impiega come tempo del narrato i grumi lirici, come anelli di registrazione di eventi le sue estasi immaginative, come esiti del dramma della città materialistica i momenti privilegiati di una grazia epifania.

E l’istanza mitica della fanciullezza trascinata nel quotidiano, nella città sfigurata, è fatta contemporanea. Ed ecco allora che il grumo lirico di cui parlavo, connaturato nello stile narrato, si converte in nuovo realismo).

Sembra l’infanzia fanciullezza del bambino perfetto, dirci di un mondo creaturale e povero che ora sembra scomparso dietro il numero e la nevrosi. E questa immagine del bimbo giocoso e silenzioso, che traversa tutto il libro a volte in maniera sotterranea a volte quasi riemergendo dal sottosuolo della città-frammento, è piena non di nostalgia ma di desiderio e spero che nella progressione del tempo civile, oscurato nei giorni odierni, del tempo di tutti noi, ci sia questo recupero.









INCIPIT



Gli elementi del diluvio



Poi venne il diluvio dei corpi. Il seme dell’universo. La terra franava sotto i piedi, tutto si allagava dal basso. Solo il buio si fece terra del sogno. Ogni cosa fu la farfalla di un giorno. L’onda specchiava il tradimento e fece di ogni parola un gesto. Così piovve dal buio e marcirono foglie nelle stanze – ha finestre disabitate tutto quello che ci riguarda –. Poi venne l’alba senza pazienza. La luce senza ombre delle sale operatorie. E quell’uomo si edificò fra costola e costola case di dolore, giardini dello sgomento. La paura cadde dalla sua fronte come neve nera. E dal fango sbocciarono colombi – riemersero colombi dal buio della terra –. Non dal cielo ma dall’abisso, non dall’altissimo ma dal profondo desiderò l’immensa madre. Nel petto un rumore di tortore è quanto resta dell’antica bestia.



CORRISPONDENZE



I



(…) tu lo sai che gli operai si salutano per cognome – al massimo il soprannome – per loro atavico imbarazzo e residuo di schiavitù. Operai da stirpi – se va bene – e per rinnovata sudditanza padri di padri e figli di figli: ma pure senza di loro le parole avrebbero meno significato – ad esempio città, lavoro, mano, ferro, vino, opera, poesia – anche se non hanno tempo per leggere poesie o lo fanno a sera con gli occhiali sbagliati e gli fa piacere magari prima della pensione sentirle leggere da qualcuno – ad esempio nel 1995 una volta a Mantova che leggevo con altri poeti in una piazzetta gonzaghesca – invitato dal comune che mi scordava fra i suoi nati – davanti a duecento persone i miei genitori in prima fila che quando ho letto una signora ingioiellata ha sussurrato alla vicina “Sissa… deve essere il figlio del notaio” e mio padre sottovoce “No siora, cal lì l’è fiol ad n’operaio” con mia madre che gli stringeva il braccio nel timore di chissà che bavetta anarchica o mancanza di rispetto e guarda, rima a parte, la musica non è del sangue? – ma gli operai non hanno paura, sono eleganti più degli eleganti come vedi, costruiscono il mondo fino a prova contraria, non hanno gloria da condividere e la loro carne fracassata sotto le presse o cotta dalle fiamme industriali conosce un silenzio di guerra che non trovo sui giornali quando poeti, critici, intellettuali, e altri mangiapane a tradimento scrivono del potere dal potere nel potere. Hanno mani importanti gli operai, complesse come vini d’annata, e una faccia vera anche nell’alba più disperata. Ecco, mi fermo un attimo sulla parola mani – o ruggine, dio, altoforno, vernice, pinza, compressore, turno, turno di notte, amianto, o cancro, silicosi, o avanguardia, élite, o gruppo editoriale, o salotto, recensione, reparto verniciatura, tenda ad ossigeno o busta paga, infortunio, sindacato, nebbia, previdenza sociale, comico tivù, calce, secchio, trattore, cassa integrazione, sciopero, calciomercato, velina, centravanti, premier, tuta, sogno, protesi, trave, impalcatura, sedia a rotelle, dignità, canottiera, sangue, pensa chi era, pensa chi la portava il giorno che io e te facevamo i comunisti, il giorno che abbiamo votato – ecco, chi non ci ha mai pensato – che se togli la parola mani nessun’altra ne esiste – si deve vergognare e a noi chiamarci per cognome, di generazione in generazione (…)



II



(…) potrei anche spiegarti che nessuna poesia soffre l’elisione di un verso ma ancora neve non se ne vede e poi, anni settanta, brandelli di parole, ombre di fatica, riflessi del nostro conversare, quanto ci hanno massacrato su ogni fronte. In noi soltanto si poteva trovare, scavando a fondo, una minima sorgente, un po’ di rifornimento. La preoccupazione non per noi, ma del morire, quanta forza ha ucciso mano a mano che si tentava l’ignoranza resistendo – e questa non è una confessione ma ogni periferia –. La periferia dell’anima o della storia grazie non ne concede, noi sogni non ne avevamo, o speranze da bambini. Tutto doveva accadere in silenzio. Nella nebbia padana fascismo, comunismo, terrorismo, avevano lo stesso colore, nessuna forma. Altrove, piuttosto, nascevano le donne che avrei amato – più in là ancora erano appena bambine –. Vent’anni dopo, nella coerenza del disastro, tu ti sei ucciso, ultimo chicco di una semina atroce. Quanti e quante ti attendevano nella madreperla dell’assenza. Da allora ho scritto incessantemente la tortura del silenzio, le slogature della speranza e il senso della colpa. E non perché ti fosse dovuto, ma perché anche oggi guardo ragazze e ragazzi incontrarsi e non ho falce per lavorare il prato, o colore per ritoccare lo sfondo. Sono io stesso una pietra che parla, una foglia, il nero del papavero, il buio della lava che si rapprende, il ricordo di chissà chi. Potrei dirti che mi manchi molto. E invece mi manchi per sempre. Resta chiuso chi non lo sa nel suo profilo domestico, e così si salva, e così sparisce dalla forza del tempo, cambia le lenzuola in cui ha dormito un amico. In tutto questo, lo so bene, fiorisce il disordine, ho gli stessi piccoli sbandamenti d’un tempo, un po’ di fantasia. Sporcarsi di vita, sapere la morte, chi voleva riordinare ha fallito. Mentire non era la nostra debolezza, sappia almeno questo chi non ha voluto ascoltare. Qualcosa in me continua l’amore, mi è toccata la poesia nella città che scompare – ogni città ha sogni d’acqua e povere cose – la lieve miopia della tenerezza. Nella neve perfetta è ancora il bambino che gioca a morire.